Nel 2015 il Parlamento ha approvato l’ennesima riforma della governance della RAI (l. n. 220/2015) dopo quelle del 1975, del 1993, del 1985 e del 2004. L’articolo, dopo una rassegna critica dei precedenti modelli di governance, esamina le novità della riforma, evidenziando come esse accentuino l’influenza del governo sulla RAI. Ciò peraltro si pone in contrasto con i principi enunciati dalla Corte costituzionale sin dalla sentenza n. 225 del 1974 (secondo la quale l’organo di amministrazione della RAI non può rappresentare «direttamente o indirettamente, espressione, esclusiva o preponderante, del potere esecutivo») e, ancor di più, con l’art. 10 della CEDU nonché con la relativa giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e con gli strumenti di soft law del Consiglio d’Europa in materia (secondo i quali gli Stati aderenti hanno l’«obbligo positivo» di assicurare che gli organi di amministrazione del servizio pubblico non siano influenzati dalla politica o, peggio, dal governo). La riforma del 2015, a parte il componente del Cda eletto dai dipendenti della RAI, prevede infatti che sei componenti su sette del Cda siano designati dal Parlamento o dal governo. La «società civile» ed il pubblico in generale continuano perciò ad essere esclusi anche in questo nuovo modello di governance. In definitiva, la riforma rappresenta un’occasione persa due volte, considerato che la coeva nuova disciplina del c.d. canone di abbonamento alla RAI (l. n. 208/2015) sembra poter dare finalmente certezza di risorse alla RAI, realizzando così la seconda condizione per assicurare l’effettiva indipendenza del servizio pubblico, accanto all’autonoma dalla politica.
La governance della RAI e la riforma del 2015
di Ottavio Grandinetti
Abstract