Il diritto dell’immigrazione: quattro sfide

di M. Savino
Abstract

Lo studio del diritto dell’immigrazione non si esaurisce nella denuncia dei dislivelli nella tutela dei diritti degli stranieri. In questo campo, l’analisi giuridica è davanti a quattro sfide: i) abbattere gli steccati disciplinari che, nella cultura accademica italiana, esistono tra il diritto e le altre scienze sociali, così come all’interno dell’area giuridica; ii) conciliare la logica individualista dei diritti umani con la logica collettiva degli interessi pubblici, come il controllo delle frontiere e la coesione delle comunità di destinazione; iii) ridimensionare lo squilibrio tra l’attenzione prestata al tema dei diritti sociali e la penuria di analisi dedicate alla regolazione della frontiera, dove più forte è la componente autoritativa del diritto dell’immigrazione e la sua tensione con i principi dello Stato di diritto; iv) andare oltre l’astratta affermazione dei diritti dei migranti, guardando anche alla loro effettività e alle condizioni della loro piena realizzazione.

Sommario: 1. Superare gli steccati disciplinari. — 2. Conciliare la logica individualista dei diritti umani con la dimensione collettiva degli interessi pubblici. — 3. Allargare lo sguardo dai diritti sociali ai diritti «di frontiera». — 4. Prestare attenzione alla effettività dei diritti e alle condizioni della loro realizzazione. — 5. Conclusioni.

1. Dopo decenni di sostanziale disinteresse della scienza giuridica italiana per il tema delle migrazioni, dall’inizio del ventunesimo secolo — e soprattutto nell’ultimo quinquennio — si è assistito a una fioritura di studi dedicati al diritto dell’immigrazione. Le ragioni sono intuitive. Da un lato, in un paese come l’Italia, con una lunga tradizione di emigrazione, l’immigrazione ha assunto una rilevanza sociale e giuridica solo in tempi relativamente recenti: fino al 1996 la presenza di stranieri era inferiore al milione, mentre oggi supera i cinque, e fino al 1998 mancava una disciplina legislativa organica della materia (1)​, mentre ormai gli interventi legislativi si susseguono con cadenza annuale. Dall’altro lato, la nascita di partiti anti-immigrazione e l’erompere della c.d. crisi migratoria hanno imposto il tema al centro del dibattito politico nazionale e continentale, sollecitando gli studiosi ad avvicinarvisi.

Uno dei primi ostacoli che il giurista incontra in questo avvicinamento è il condizionamento derivante dagli steccati disciplinari che — nella cultura giuridica italiana più che in altre — preservano l’area del diritto dalla contaminazione con altre scienze sociali e la segmentano al suo interno. Abbattere quegli steccati è una delle precondizioni necessarie per la comprensione del fenomeno migratorio. Non solo perché si tratta di un fenomeno sociale composito, oggetto di studio da parte di tutte le scienze sociali. Ma anche perché si tratta di un ramo promiscuo del diritto, nel quale le fonti internazionali, europee e statali sono in continua evoluzione e concorrenza, la legge sfida la Costituzione e le carte dei diritti, la prevenzione amministrativa e la repressione penale si ibridano in vario modo.

Anche per raccogliere questa sfida, è stata creata, pochi mesi fa, una Accademia di diritto e migrazioni (ADiM), pensata come rete di studiosi della materia, aperta al contributo di tutte le discipline giuridiche e le scienze sociali. Le relazioni presentate in occasione del convegno inaugurale dell’Accademia (2)​, raccolte in questo fascicolo, sono una prima testimonianza del dialogo tra saperi che si intende promuovere, essendo ivi rappresentati molteplici punti di vista: storico, filosofico, del diritto amministrativo, penale, lavoristico, comparato, costituzionale, internazionale ed europeo.

Così, lo sguardo dello storico del diritto, Michele Pifferi, aiuta a comprendere quanta parte dei problemi giuridici di oggi (la cedevolezza delle garanzie costituzionali, la «amministrativizzazione» delle libertà del migrante, la criminalizzazione delle sue condotte, l’intreccio con la retorica nazionalista) non sia nuova, ma già sperimentata tra Otto e Novecento sulle due sponde dall’Atlantico. Lo scavo lessicale condotto dalla filosofa del diritto, Enrica Rigo, porta alla luce la storicità, le torsioni e i paradossi inattesi (ad esempio, quello dell’asilo settecentesco come «il più anti-illuminista dei diritti») legati ai concetti-chiave di fraternità, rifugio, innocenza, interesse, ospitalità e appunto asilo, attorno ai quali il dibattito, non solo giuridico, tuttora ruota. Circoscrivendo l’attenzione all’Italia repubblicana, lo studioso della storia contemporanea, Michele Colucci, spiega la correlazione tra l’andamento dei processi migratori e gli interventi legislativi succedutisi negli ultimi decenni, evidenziando moventi e fallimenti della regolazione giuridica in materia.

Venendo al presente, l’indagine dell’amministrativista, Fulvio Cortese, consente di comprendere non solo i limiti dell’abusata formula «crisi migratoria», che serve piuttosto a nascondere un deficit di capacità politica e gestionale a livello statale, ma anche lo squilibrio che l’utilizzo di strumenti amministrativi di deterrenza ha prodotto sul piano della tutela delle libertà individuali dei migranti. I termini di questo squilibrio sono approfonditi anche da altri versanti: quello del penalista, Alessandro Spena, che dipana l’intreccio tra diritto penale e amministrativo nella regolazione del fenomeno migratorio, segnalando le insanabili contraddizioni della c.d. crimmigration; quello della giuslavorista, Madia D’Onghia, che individua nella vulnerabilità e nello sfruttamento dei c.d. clandestini il risultato perverso di una politica di contrasto dell’irregolarità ispirata a una logica punitiva tanto severa quanto inefficace; quello della comparatista, Carla Bassu, che dimostra come anche in altri ordinamenti occidentali l’approccio «securitario» ai problemi posti dall’immigrazione abbia generato elevati costi, in termini di compressione dei diritti fondamentali dei migranti, non compensati da benefici sul piano della sicurezza delle comunità di destinazione. Come evidenzia poi il costituzionalista, Alessio Rauti, all’esaltazione della logica repressiva come strumento di deterrenza fa da contraltare il sostanziale disinteresse del legislatore statale per le esigenze di integrazione degli immigrati: di qui, una disciplina della cittadinanza singolarmente divaricata tra una concezione etnica, che traspare dall’esaltazione dello ius sanguinis nella legislazione italiana, e una concezione mercantilistica, che affiora qua e là in Europa e svincola l’acquisto della cittadinanza da un legame effettivo con la comunità e il territorio dello Stato.

I contributi di studiosi del diritto internazionale ed europeo consentono, poi, di mettere a fuoco altrettanti aspetti importanti del diritto ultrastatale dell’immigrazione. L’analisi di Irini Papanicolopulu chiarisce che l’obbligo di salvare i migranti in mare è, in base al diritto internazionale vigente, un obbligo umanitario incondizionato: benché lacunosa, in quanto non identifica il «luogo sicuro» per lo sbarco delle persone soccorse, la disciplina internazionale di questo obbligo rende illecito ogni tentativo statale di escludere dalle operazioni di salvataggio alcune tipologie di soccorritori (ad esempio le Ong) o di imporre loro comportamenti contrari al principio di non-refoulement. L’esame delle proposte contenute nel c.d. pacchetto asilo in discussione a Bruxelles, condotto da Salvo Nicolosi, consente di apprezzare la distanza tra il sistema comune europeo di asilo prefigurato venti anni fa dal Consiglio europeo di Tampere (1999) e la realtà dei nostri giorni, prigioniera di uno stallo politico del quale il dossier Dublino è l’emblema. Nell’area delle relazioni esterne dell’Unione il ricorso a strumenti informali di soft law per il contrasto dell’immigrazione irregolare è più pervasivo che in altre aree del diritto dell’Unione. Questa deformalizzazione — spiega Federico Casolari — si pone in contrasto con principi strutturali del diritto Ue, come l’attribuzione di competenze, la leale cooperazione e la rule of law, compromettendo l’autonomia dell’ordinamento giuridico sovranazionale rispetto al diritto internazionale.

In chiusura della raccolta, Giuliano Amato evidenzia le contraddizioni della politica di contenimento in auge. Da un lato, il diritto di asilo è soffocato nella morsa tra la esternalizzazione delle frontiere e i ritardi amministrativi del sistema domestico di accoglienza. Dall’altro, l’ordinata gestione della migrazione economica è ostacolata dal sostanziale azzeramento degli ingressi autorizzati e dall’inefficacia dei rimpatri. L’invito rivolto ai policy makers è duplice: riaprire, in misura sostenibile, i canali di ingresso per motivi di lavoro e proporre ai paesi di origine mobility pacts organici, invece che accordi di riammissione per loro poco appetibili e di corto respiro.

2. Il dibattito attuale sull’immigrazione è attraversato da una vistosa frattura: alla visione universalista, che domina il discorso accademico e propugna l’eguale trattamento giuridico di cittadini e stranieri, si contrappone la retorica nazionalista, che guadagna consensi nel discorso politico e reclama una netta divaricazione di status tra il cittadino e lo straniero-migrante.

La frattura è figlia dei tempi. L’ascesa dei nazional-populismi in Italia e in Europa produce una legislazione che rinvigorisce l’antico paradigma dell’appartenenza nazionale: un paradigma — quello maturato nella seconda metà dell’Ottocento — che antepone lo Stato al cittadino, subordinando le libertà del secondo agli interessi del primo. Dopo l’esperienza dei due conflitti mondiali, quel paradigma illiberale sembrava definitivamente archiviato. Invece, in tempi di crisi delle finanze pubbliche e dei sistemi di welfare, si torna a rivendicare il primato degli interessi della comunità nazionale e dei suoi componenti, i cittadini, per i quali si esige un godimento (più) esclusivo dei diritti politici e sociali, in nome della logica dell’appartenenza nazionale. Torna, così, a diffondersi la percezione di un radicale antagonismo tra «noi» e gli «altri». Un antagonismo che, a sua volta, si intreccia con quello tra élite e popolo: la prima pronta a solidarizzare con i migranti che fuggono da guerre e povertà (gli «ultimi» dell’approccio universalista); il secondo, invece, più attento alla sorte dei concittadini in difficoltà (i «penultimi» che l’universalismo liberale ignorerebbe) (3)​.

Così, la ricerca del consenso elettorale induce sempre più spesso i legislatori statali a sfidare il principio di eguaglianza nel godimento dei diritti umani pur di comprimere i diritti dei migranti e rinsaldare il primato delle identità e degli interessi nazionali. Il risultato è un diritto dell’immigrazione sempre più speciale e divergente rispetto al resto del diritto pubblico e ai postulati dello Stato di diritto sui quali la civiltà giuridica europea si fonda.

La risposta, sul versante accademico, è un dibattito giuridico che rilancia il primato dei diritti umani come argine a questa deriva e mette in guardia dai rischi che il tradimento della rule of law in questa area comporta per le libertà individuali dei singoli e per l’intero ordinamento. Sono ricorrenti, nella letteratura giuridica, i moniti al legislatore liberticida e gli appelli ai giudici affinché si ergano a paladini di quei valori universali — i diritti umani — che oggi più che mai dovrebbero operare nel senso dworkiano di trumps, «briscole» antimaggioritarie, presidio invalicabile della dignità umana (4)​.

Il giurista liberale non può non condividere il proposito di quei moniti e appelli. Propugnare il rispetto delle libertà fondamentali, degli «altri» oltre che nostre, è una prospettiva consonante con lo slancio universalistico della Dichiarazione sui diritti umani del 1948 e con il modello politico consolidatosi nella seconda metà del Novecento in Europa (5)​. Tuttavia, il realismo giuridico impone anche di considerare che quel modello — ben raffigurato dall’ascesa, dopo la caduta del muro di Berlino, di una Comunità (poi Unione) senza confini, aperta all’adesione dei paesi dell’Est, fondata sulla promozione della democrazia e su un livello elevato, appunto, di protezione dei diritti umani — è ora in crisi. E che il nostro specifico oggetto di studio, l’immigrazione, costituisce l’epicentro dal quale quella crisi promana (6)​.

In questo quadro, affiora — quasi per reazione alla retorica nazionalista — la tendenza a semplificare l’analisi giuridica e ad appiattire la complessità dei problemi legati al trattamento dello straniero. Ri(con)dotti entro un rigido schema «anti-discriminatorio», che assolutizza la dimensione individuale del godimento dei diritti fondamentali, quei problemi non di rado perdono di profondità, perché gli interessi meta-individuali che alimentano la legislazione sull’immigrazione — dal controllo delle frontiere alla sicurezza — finiscono per essere delegittimati ed espunti dal bilanciamento. Così, però, in nome di un diritto dell’immigrazione più garantista, si finisce per archiviare la logica antagonista tra interessi pubblici e privati — o, se si preferisce, tra autorità e libertà — che è alla base della riflessione giuspubblicistica liberale dalla metà del Novecento ad oggi.

Si pensi alla tesi universalista per eccellenza, imperniata sull’esaltazione dello ius migrandi e sul corrispondente obbligo dei paesi-meta di aprire le loro frontiere. Questa tesi si fonda su una visione idealista, irenica, che appare criticabile non tanto perché ignora il dato politico (gli elettorati europei sono ormai orientati alla chiusura più che all’apertura), ma dal punto di vista strettamente giuridico, perché prescinde dal dato positivo (in Europa, non solo le norme nazionali, ma anche quelle dell’Unione impongono un rigoroso controllo delle frontiere, pena l’esclusione dall’area Schengen), e intenzionalmente trascura la dimensione meta-individuale del fenomeno, cioè l’impatto che flussi ormai di massa hanno sul sistema amministrativo di accoglienza e sulle comunità di destinazione, interessate a salvaguardare la loro sicurezza e coesione.

Se si accetta l’idea che il discorso giuridico non debba ignorare questi interessi meta-individuali, allora la decostruzione della specialità del diritto dell’immigrazione deve procedere per altra via. Non basta rimuovere gli elementi «pubblici» che disturbano la prospettiva universalista, espungendoli dal perimetro della riflessione giuridica, ma occorre utilizzare chiavi di lettura che consentano di superare la prospettiva puramente individualista sulla quale si fonda la «retorica dei diritti umani» (7)​.

Le libertà fondamentali sono la premessa necessaria di qualsiasi analisi sul livello di tutela da assicurare al singolo nei confronti del pubblico potere. Tuttavia, se nel discorso sui diritti il protagonista unico diventa l’individuo, astratto dall’ordinamento giuridico nel quale si trova, quel discorso finisce per promuovere una logica — individualista, appunto — che programmaticamente sottovaluta il peso degli interessi meta-individuali o collettivi, fino a ignorarli. Il risultato è un quadro giuridico nel quale le libertà individuali occupano tutta la scena, fino a sospingere gli interessi pubblici antagonisti fuori dalla cornice.

Che gli interessi del singolo, sia esso cittadino o straniero, possano non coincidere con quelli del gruppo sociale del quale il primo fa parte o diviene membro è evidente. Che succederebbe se l’Europa, popolata da circa mezzo miliardo di persone, decidesse di accogliere, oltre ai due milioni di rifugiati che hanno raggiunto le coste italiane e greche dal 2014 ad oggi, buona parte dei rifugiati dell’Africa e del Medio Oriente, cioè decine di milioni di persone (8)​? Il riconoscimento a quelle masse di migranti del diritto alla protezione internazionale (e degli altri diritti civili e sociali che al primo si ricollegano in base alla Convenzione di Ginevra del 1951) comporterebbe una crisi della capacità redistributiva dello Stato, che non sarebbe più in grado di farsi carico dei bisogni essenziali dei cittadini appartenenti alla comunità nazionale.

Come questo esempio iperbolico aiuta a chiarire, il diritto dell’immigrazione chiama in causa, esasperandola forse più di quanto avvenga in ogni altro ambito del diritto pubblico, la dialettica tra i diritti individuali (del migrante) e la dimensione collettiva degli interessi pubblici o meta-individuali (dalla promozione dei quali dipende l’idea stessa di comunità). La logica individualista dei diritti umani, applicata meccanicamente in un contesto di sempre più accentuata mobilità umana, ha in sé la capacità di corrodere le fondamenta sulle quali poggia la capacità del pubblico potere di plasmare e tenere unite le comunità locali e nazionali.

Il rischio è che la retorica dei diritti umani trascuri — o, quanto meno, releghi in secondo piano — la tensione tra i diritti individuali e gli interessi meta-individuali che la maggioranza dei cittadini definisce tramite il gioco democratico. Si finirebbe, così, per rinunciare a esplorare gli ambiti di vera specialità di questo ramo del diritto pubblico, che non è semplicemente uno dei tanti capitoli della lotta contro le discriminazioni. Si tratta, piuttosto, di un ambito nel quale sono gli stessi limiti della democrazia ad essere sfidati, perché gli interessi pubblici da promuovere con la legislazione sono definiti senza la partecipazione degli «altri», gli stranieri privi del diritto al voto, con conseguenze per il complessivo assetto dei poteri pubblici e, in particolare, per il complesso rapporto tra legislatore e giudici (9)​.

3. Una parte considerevole delle riflessioni giuridiche sull’immigrazione è focalizzata sul tema dei diritti sociali. Si pensi alle prestazioni «personalissime» (come l’istruzione dei minori o le prestazioni riconducibili al «nucleo irriducibile» del diritto alla salute) che si distinguono, appunto, per la essenzialità dei beni in gioco e per la irreparabilità del pregiudizio alla persona che deriverebbe da una loro violazione. Oppure alle altre prestazioni (diritto a un alloggio e alle misure di integrazione sociale, assistenza a invalidi e inabili, ecc.) che sono dirette a soddisfare bisogni primari della persona umana. O, ancora, alle prestazioni sociali doverose (diverse da quelle sopra richiamate) corrispondenti all’area dei diritti fondamentali (salute, istruzione, abitazione, sicurezza sociale). O, infine, alle prestazioni esterne all’area della doverosità costituzionale, in quanto non rientranti nei «livelli essenziali» di cui all’art. 117, secondo comma, lett. m), Cost.

L’attenzione degli studiosi del diritto dell’immigrazione per queste tematiche ha diverse spiegazioni. La prima è riconducibile alla prevalenza dell’approccio individualista o non discriminatorio sopra evocato. L’idea egalitaria su cui esso poggia è solida. La coesistenza, nel medesimo territorio, di persone con uno status giuridico diverso — alcuni con pieni diritti, altri senza, altri ancora con una soggettività giuridica dimidiata — riproduce una logica dei dislivelli di giuridicità compatibile con il sistema cetuale dell’ancien régime e con la «cittadinanza degli antichi», ma non con il Dna costituzionale degli ordinamenti liberal-democratici, che riposa, al contrario, sul principio della eguale libertà e dignità degli individui. Per non tradire tale principio, questi ordinamenti possono riservare ai cittadini-membri alcuni diritti politici, ma non possono accettare che questo differenziale politico si traduca in un diseguale godimento degli altri diritti, da quelli civili (meno frequentemente messi in discussione) a quelli, appunto, sociali.

La seconda ragione è rappresentata dalla ricchezza della giurisprudenza costituzionale in materia: una giurisprudenza che, pur con oscillazioni, in questo ambito ha ormai superato il paradigma escludente della cittadinanza, aderendo all’opposto criterio della territorialità, che porta al tendenziale riconoscimento dei diritti (civili e sociali) a quanti vivano stabilmente nel territorio. Nella giurisprudenza delle corti che lo adottano, questo principio di «eguaglianza territoriale» non implica, ovviamente, l’assoluta parità di trattamento, bensì un vaglio sulla ragionevolezza delle disparità, effettuato in base a due variabili principali — la regolarità e la durata del soggiorno — che talora si cumulano a quello della presenza fisica nel territorio e, insieme ad esso, soppiantano il criterio della nazionalità.

Il paradigma della territorialità consente, in questa area, di instaurare un controllo di costituzionalità adeguato al carattere multinazionale della comunità statali del ventunesimo secolo: un controllo che è convergente con il postulato — largamente prevalente nel patrimonio costituzionale europeo — della priorità assiologica delle libertà individuali e che impone alla legge di assicurare una correlazione ragionevole e proporzionale tra inclusione giuridica e integrazione sociale.

Per contro, è proprio l’ambito nel quale la giurisprudenza costituzionale è meno avanzata — la regolazione del confine — che finisce per restare maggiormente in ombra negli studi giuridici dedicati al settore. Di espulsioni, respingimenti (al confine, nelle zone di transito e differiti), detenzione amministrativa e altre misure coercitive si occupano i pochi specialisti di settore, sia perché questo versante presenta una maggiore complessità tecnica, sia perché la Corte costituzionale si è occupata meno e in modo meno convincente di questi aspetti, data la ambigua consistenza giuridica delle pretese del migrante alla frontiera.

Questo limitato interesse è un punto di debolezza della riflessione giuridica sul tema. Non solo perché l’idea di una netta distinzione tra esterno (disciplina del trattamento alla frontiera) e interno (disciplina dei diritti sociali) è illusoria. Ma anche perché è alla frontiera che si fa più intenso l’arretramento dello Stato di diritto, essendo quello l’epicentro delle tensioni politiche attuali. Alla frontiera più che altrove, si assiste al potenziamento della dimensione autoritativa del diritto, a detrimento di diritti e libertà individuali anche di rilievo costituzionale.

Basti pensare all’espansione crescente dei poteri di detenzione amministrativa dei migranti, ora a fini di identificazione, ora a fini di rimpatrio, con silenziosa riscrittura del modello di tutela della libertà personale delineato dall’art. 13 Cost. Oppure alla mancata riconduzione al modello costituzionale della prevenzione ante e post delictum di misure proprie del diritto dell’immigrazione, come le autorizzazioni dell’ingresso e del soggiorno o le misure ablatorie fondate su ragioni di ordine pubblico, per le quali sembrano non valere i principi (ad esempio, di proporzionalità e di accertamento in concreto della pericolosità sociale) che invece valgono per le ordinarie misure di prevenzione e di sicurezza. Si tratta di segni tangibili della tendenza alla «amministrativizzazione» delle libertà individuali dei migranti, che si associa all’ascesa delle esigenze di difesa sociale e offre un vasto campo di esplorazione giuridica.

4. Con le costituzioni liberali del secondo dopoguerra, i diritti dell’uomo sono divenuti condizione di legittimità degli ordinamenti democratici in Europa: non più mere pretese morali o, come nelle costituzioni flessibili dell’Ottocento, enunciazioni normative non esigibili, ma diritti riconosciuti da costituzioni rigide, disciplinati sul piano legislativo e azionabili davanti alle corti. L’avvenuta positivizzazione, però, non annulla «la distanza tra l’enunciazione e la realizzazione» (10)​. Piuttosto, la riproduce su un diverso piano: quello della effettività dei diritti, compromessa non solo dall’incostanza delle scelte politiche del government of the day, ma anche da una serie di inefficienze amministrative legate a un’ampia gamma di attività: la trattazione delle richieste di asilo, l’organizzazione dell’accoglienza, la promozione di buone pratiche di integrazione, l’erogazione ai migranti di prestazioni sociali, il contrasto della clandestinità.

I limiti principali del sistema italiano di gestione dei flussi sono quattro. Il primo, di ordine istituzionale, attiene alla concentrazione delle competenze in materia di immigrazione in capo al ministero degli interni. Questa concentrazione, sia pure temperata dal ruolo ancillare che svolgono altri ministeri — in primis quelli degli affari esteri e del lavoro — ha l’effetto di ridurre un fenomeno sociale complesso, con importanti implicazioni redistributive per le società del ventunesimo secolo, a problema di ordine pubblico. Lo squilibrio istituzionale è esacerbato dalla primazia di cui i ministri dell’interno godono anche a livello europeo, dove è il Consiglio affari interni a dominare i processi decisionali in questa materia. Ne deriva un carente coordinamento tra le funzioni «securitarie» e le altre, a torto considerate ancillari. Basti pensare alle funzioni di rappresentanza esterna, cioè alla conduzione delle relazioni diplomatiche e amministrative con i paesi terzi di origine e transito, la cooperazione con i quali è imprescindibile per promuovere una gestione ordinata degli arrivi e dei rimpatri.

Il secondo limite deriva dal disallineamento tra le (sempre più scarse) risorse amministrative e il peso (crescente) che tali funzioni hanno ormai assunto a livello centrale e territoriale. A questo problema l’Italia ha preferito ovviare con una duplice delega, all’Unione europea e al terzo settore: una delega che, però, ha lasciato insoddisfatte sia le istanze di sovranità nazionale (condizionata dalle scelte compiute a Bruxelles), sia le istanze di legalità (si pensi alla ricorrenza dei fenomeni corruttivi nella gestione dei centri di accoglienza, frutto della carenza di controlli pubblici e di una adeguata programmazione). Più di recente, proprio in nome di quelle istanze, la doppia delega è stata rimessa in discussione, ma senza trarne le dovute conseguenze: senza dotare, cioè, gli apparati amministrativi delle risorse necessarie a compensare il ridimensionamento della cooperazione con i partners europei e le organizzazioni non governative. Il risultato immediato è lo svuotamento di diritti riconosciuti sulla carta, dal diritto alla vita che avrebbe come corollario l’obbligo di salvataggio in mare al diritto a prestazioni minime di accoglienza per i richiedenti asilo. Il risultato complessivo è la rinuncia a governare il fenomeno per massimizzarne i benefici e mitigarne l’impatto redistributivo, sfavorevole alle fasce sociali vulnerabili.

Il terzo limite è l’assenza di una programmazione dei flussi e di canali regolari di ingresso per motivi di lavoro. Mentre la Germania, dopo aver accolto un milione di rifugiati, continua a prevedere un fabbisogno di 300 mila lavoratori extracomunitari, il governo italiano, nei decreti flussi annuali limita da tempo le sue quote di ingresso per lavoro ad appena 30 mila, per metà stagionali. Questa politica restrittiva di accesso al mercato del lavoro alimenta un circolo vizioso: nei paesi di origine, non incentiva la costruzione di percorsi di selezione e formazione, bensì l’azzardo morale dei migranti economici, sul quale lucrano i trafficanti; nei paesi di destinazione, produce clandestinità, lavoro nero, dumping sociale, insicurezza e abuso dell’asilo (unico modo per acquisire un titolo di soggiorno). Si ripropone, perciò, con rinnovata urgenza il problema della programmazione, su base nazionale e, se possibile, europea, dei flussi di migranti economici a partire da una seria valutazione sia del fabbisogno del sistema produttivo, sia degli interessi europei e nazionali di medio-lungo periodo, collegati alla dinamica demografica e alla sostenibilità dei sistemi di welfare.

Un quarto limite riguarda, infine, le vie di uscita, cioè la politica dei rimpatri. Da un lato, la quota di presenze irregolari in Italia, ridottasi a 300 mila nel 2013, è oggi raddoppiata ed è destinata ad aumentare ancora a causa dell’abolizione della protezione umanitaria (11). Dall’altro, la capacità di rimpatrio dell’Italia non supera da anni i 5-6 mila migranti, per la riluttanza degli Stati di origine a siglare accordi di riammissione, impopolari presso le rispettive popolazioni, e per i costi delle operazioni di rimpatrio. Ciò nondimeno, l’Italia continua a non investire risorse né nella instaurazione di un dialogo costruttivo con le controparti africane, né nella sperimentazione di opzioni alternative (come i rimpatri volontari assistiti), né nel rafforzamento della sua capacità operativa, in attesa che si possa un domani delegare i rimpatri a una Guardia europea (12). Nel frattempo, l’aumento della clandestinità non ha mancato di innescare la reazione difensiva degli Stati europei confinanti, che hanno tutti ripristinato (formalmente o in via di fatto) i controlli alle frontiere con l’Italia. Questo stato di cose rischia, in prospettiva, di mettere in discussione la partecipazione dell’Italia allo spazio Schengen.

5. Un quadriennio di intensi sbarchi non autorizzati dal Nord Africa e, nel 2015, la combinazione tra gli attentanti terroristici di matrice islamista e l’afflusso incontrollato di oltre un milione di profughi nel cuore dell’Europa hanno lasciato segni profondi nelle opinioni pubbliche nazionali. Pressoché ovunque il processo democratico, da strumento di inclusione sociale e di riduzione delle disparità, va convertendosi in strumento di esclusione e protezione degli interessi autoctoni. Prioritario, per la maggioranza dei cittadini europei, è salvaguardare le opportunità di lavoro, la sicurezza interna e le identità nazionali, rispetto alle quali l’arrivo di migranti economici e rifugiati è percepito come una minaccia.

In un simile contesto, è senza dubbio importante che i giuristi continuino a denunciare i dislivelli di giuridicità, talora macroscopici, che attraversano questa materia e ledono la dignità dei migranti. Ma occorre anche ricordare che quello dell’astratto riconoscimento dei diritti e delle libertà fondamentali non è l’unico punto di osservazione valido per studiare un fenomeno socialmente e giuridicamente così complesso.

Come si è tentato di argomentare in queste pagine, il dominio della retorica dei diritti umani sugli studi giuridici in materia di immigrazione porta con sé alcuni rischi. Il primo è che un discorso esclusivamente incentrato sui diritti rinvigorisca l’usurata idea dell’autosufficienza del diritto rispetto alle altre scienze sociali. Il secondo è la insufficiente problematizzazione della tensione tra la logica individualista, propria dei diritti umani, e la logica meta-individuale, che chiama in causa valori collettivi fondanti come la coesione e la sicurezza delle comunità locali e nazionali. Il terzo è la sproporzione tra l’attenzione prestata al tema dei diritti sociali, molto frequentato da costituzionalisti e pubblicisti in generale, e la penuria di analisi dedicate alla regolazione della frontiera, che pure è l’area nella quale la componente autoritativa del diritto dell’immigrazione e la sua refrattarietà ai principi dello Stato di diritto sono più evidenti. Il quarto rischio, infine, è l’enfasi sulla astratta affermazione dei diritti, non accompagnata da una altrettanto puntuale verifica circa le condizioni di esigibilità ed effettivo godimento degli stessi.

La principale condizione di effettività dei diritti dei migranti è la gestione «sicura, regolare e ordinata» dei flussi evocata dalla Dichiarazione di New York del settembre 2016. Questo obiettivo resta lontano, non solo per effetto delle contingenti politiche, più o meno restrittive, praticate dai governi europei, ma anche per via di alcuni problemi strutturali, sopra evidenziati: dal dominio dei ministeri dell’interno e della loro prospettiva securitaria sui processi decisionali (domestici ed europei) al carente finanziamento delle funzioni amministrative, che in questo ambito sono in costante espansione; dall’assenza di una programmazione pluriennale degli ingressi alla inadeguata cooperazione con i paesi di origine, anche (ma non solo) a fini di riammissione degli irregolari. Persistendo questi deficit istituzionali e amministrativi, i diritti dei migranti continueranno a subire un inesorabile processo di erosione.

(1)Prima del d.lg. 25 luglio 1998, n. 286 (c.d. testo unico dell’immigrazione), la lacunosa disciplina dell’asilo e dell’immigrazione era dettata dalla legge 28 febbraio 1990, n. 39 (c.d. legge Martelli).

(2) Tenutosi il 29 e 30 novembre 2018 presso l’Università della Tuscia.

(3) Si cfr. P. E. Grande, T. Schwarzbözl e M. Fatke, Politicizing immigration in Western Europe, in Journal of European Public Policy, 23 ottobre 2018 (online), e Lutz, Variation in policy success: radical right populism and migration policy, in 42 West European Politics (2019), 517 ss.

(4) R. Dworkin, Taking rights seriously, Cambridge, Harvard University Press, 1977, XI.

(5) M. Savino, Le libertà degli altri. La regolazione amministrativa dei flussi migratori, Milano, Giuffrè, 2012.

(6)I. Krastev, After Europe, Philadelphia, UPP, 2017.

(7) Nel senso in cui ne parla P. Costa, Dai diritti naturali ai diritti umani: episodi di retorica universalistica in Il lato oscuro dei diritti umani. Esigenze emancipatorie e logiche di dominio nella tutela giuridica dell’individuo, a cura di M. Meccarelli, P. Palchetti e C. Sotis, Madrid, Dyckinson, 2014, 27 ss.

(8) Secondo l’UNHCR, Global Trends 2016, Geneva, 2017, alla fine del 2016 vi erano nel mondo 22,5 milioni di rifugiati e oltre 40 milioni di sfollati rimasti all’interno di paesi in conflitto.

(9) M. Savino, Lo straniero nella giurisprudenza costituzionale: tra cittadinanza e territorialità, in Quaderni costituzionali, 2017, n. 1, 41 ss.

(10) P. Costa, Dai diritti naturali ai diritti umani, cit., 75.

(11) Di almeno 70 mila unità, secondo l’Istituto per gli studi di politica internazionale – ISPI: si cfr. M. Villa, I nuovi irregolari in Italia, 18 dicembre 2018 (https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/i-nuovi-irregolari-italia-21812), secondo il quale, anche immaginando l’azzeramento completo degli arrivi non autorizzati, occorrerebbero ben 90 anni per rimpatriare, ai ritmi attuali, tutti i migranti irregolari presenti in Italia.

(12) Commissione europea, Proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio relativo alla Guardia di frontiera e costiera europea, COM(2018) 631 final, 12 settembre 2018.