Fine corsa per Uber, la sentenza della Corte Suprema britannica: i drivers non sono lavoratori autonomi e hanno diritto a maggiori tutele

Gli autisti di Uber non sono collaboratori freelance, ma devono essere considerati, a tutti gli effetti, lavoratori dipendenti, con il diritto a ferie pagate e salario minimo. Ad affermarlo è la Corte Suprema britannica che riapre il dibattito, in realtà mai sopito, sulla qualificazione giuridica dei lavoratori della Gig economy e sulla necessità di assicurare loro una regolamentazione maggiormente protettiva.

 

Dopo sei anni, la contesa legale tra Uber e i suoi drivers è finalmente giunta al “capolinea”. La Corte Suprema britannica ha rigettato il ricorso proposto dall’azienda californiana contro la sentenza dell’Employment Appeal Tribunal, confermando all’unanimità le decisioni dei giudici precedenti: gli autisti di Uber non sono collaboratori freelance, ma devono essere considerati, a tutti gli effetti, lavoratori dipendenti, con conseguente applicazione delle tutele legali connesse a tale status.

Già nel 2016, il tribunale del lavoro di Londra, adito in prima istanza da James Farrar e Yaseen Aslam, ex conducenti della società, si era pronunciato a favore dei ricorrenti, attribuendo loro il diritto a ferie pagate e ad un salario minimo. Decisione poi confermata nei successivi gradi di giudizio.

Com’è noto, Uber mette a disposizione una piattaforma digitale attraverso la quale gli utenti possono prenotare una corsa o, viceversa, offrirne l’espletamento (ne abbiamo parlato QUI). L’applicazione mobile localizza, tramite GPS, il driver più vicino, il quale dispone di un tempo determinato (dieci secondi) per accettare o meno la richiesta ricevuta. Le comunicazioni tra le parti avvengono esclusivamente tramite la piattaforma che propone finanche il percorso da fare all’autista (tra l’altro, eventuali modifiche del percorso possono portare a riduzioni del compenso percepito in caso di lamentele del cliente). Una volta terminata la corsa, l’APP calcola automaticamente la tariffa, addebitandola sulla carta di credito del passeggero. Con cadenza settimanale, Uber riaccredita agli autisti quanto incassato, trattenendo il costo del servizio. È poi previsto un meccanismo di rating che consente ai drivers e ai passeggeri di valutarsi reciprocamente in maniera del tutto anonima.

L’azienda ha da sempre inquadrato i propri drivers come “independent contractors”: lavoratori autonomi che utilizzano Uber come mero servizio di prenotazione attraverso la creazione di un account e l’accettazione dei termini previsti.

Tuttavia, l’argomentazione sostenuta dai legali di Uber, secondo cui la società si limiterebbe a fungere da mera intermediaria nella contrattazione dei servizi di trasporto tra autisti e passeggeri, non ha retto al vaglio della giustizia britannica.

Richiamando il ragionamento del tribunale del lavoro, la Corte suprema decostruisce la tesi suddetta, facendo leva su alcuni aspetti-chiave indicativi della situazione di “dipendenza” degli autisti dalla società: la tariffa delle corse è predefinita dall’App; le condizioni contrattuali in base alle quali i conducenti prestano i loro servizi sono imposte da Uber, non sussistendo alcun potere di contrattazione in capo ai primi; le comunicazioni tra passeggeri e autisti sono fortemente limitate. Infine, benché i drivers siano liberi di accettare o rifiutare la richiesta pervenutagli, Uber esercita su di loro un “doppio controllo”: da un lato, gestisce le informazioni di cui può disporre il conducente, il quale non viene a conoscenza della destinazione del viaggio fino a quando non preleva il passeggero (non ha, quindi, la possibilità di rifiutare la corsa tenendo conto di questo aspetto); dall’altro, monitora il tasso di accettazione delle richieste di viaggio e l’operato stesso dell’autista attraverso il sistema di rating, irrogando eventuali sanzioni (sospensione temporanea dell’accesso all’APP; rimozione definiva dalla piattaforma).

Alla luce di queste considerazioni, è evidente la differenza tra Uber e altre piattaforme digitali che agiscono come agenti di prenotazione. Ad esempio, le recensioni degli utenti che in una piattaforma come Booking risultano funzionali alla scelta della struttura, vengono qui utilizzate come strumento di controllo, potendo condurre addirittura al licenziamento del driver.

La Corte ha confermato il giudizio di merito anche relativamente alla quantificazione dell’orario lavorativo, il quale non è limitato (come sostenuto da Uber) al tempo impiegato per il prelievo e il trasporto dei passeggeri, ma comprende l’intero arco temporale che va dal log in, attestante la disponibilità dell’autista a ricevere richieste, fino alla disconnessione dalla piattaforma.

A seguito della decisione della Corte Suprema, il tribunale del lavoro determinerà il livello di compensazione spettante ai lavoratori che, secondo lo studio legale Leigh Day, potrebbe arrivare fino a dodicimila sterline per ciascun ricorrente.

Come dichiarato da James Farrar, co-attore principale e segretario generale del sindacato App Drivers and Couriers, la sentenza inciderà profondamente sul settore della Gig economy, ponendo fine “allo sfruttamento diffuso dei lavoratori mediante inganni algoritmici e contrattuali”. Questo vale, a maggior ragione, in un ordinamento giuridico, come quello inglese, caratterizzato dal principio della vincolatività del precedente per i casi simili futuri.

Quello della “Gig economy” è un mercato in forte crescita, sebbene difficilmente misurabile, atteso il diffuso disaccordo in ordine alle prestazioni lavorative ad esso ascrivibili. Secondo le stime della Commissione europea, sono più di 24 milioni le persone che in Europa offrono prestazioni lavorative mediante piattaforme. Inoltre, per circa tre milioni di loro la Gig economy è addirittura la principale fonte di reddito.

Il termine, proveniente dal gergo dei musicisti jazz degli anni ’20, indica i “lavoretti” occasionali gestiti attraverso piattaforme digitali. Come si evince dal Rapporto Inps del 2018, la categoria può includere una moltitudine di attività: dal lavoro on-demand tramite APP (Uber, Deliveroo, Foodora ecc.) al Crowdwork o “lavoro nella folla” (Amazon Mechanical Turk, Twago ecc.), fino a comprendere – almeno secondo alcuni – la Sharing Economy (si pensi ad Airbnb o BlaBlaCar).

Ma qual è la situazione dei gig workers nel nostro Paese?

In Italia la Gig economy si è affermata soprattutto nel settore della food delivery (la consegna a domicilio svolta dai cosiddetti riders), estendendosi poi ad altri settori.

Secondo un’indagine condotta nel 2019 dall’INAPP (Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche), i gig workers italiani sono più di duecentomila: il 42% lavora senza un vero e proprio contratto e il 19,2% con un contratto di collaborazione.

Al fine di ovviare alla situazione di vulnerabilità in cui versano questi lavoratori, il Jobs Act (d.lgs. 81/2015 e successive modifiche) ha esteso la disciplina del rapporto di lavoro subordinato ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro prevalentemente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente (etero-organizzate), anche mediante piattaforme digitali.

Da ultimo, sul dibattito relativo all’inquadramento della posizione di questi lavoratori “ibridi” ha inciso una pronuncia della Corte di Cassazione. Appena un anno prima della sentenza della Corte britannica, infatti, la nostra Suprema Corte si era trovata a decidere su un ricorso presentato da alcuni ciclo-fattorini di Foodora con il quale questi chiedevano il riconoscimento della natura subordinata del rapporto di lavoro intercorrente con la nota start up.

La Cassazione, nel confermare l’applicabilità ai riders del Jobs Act, ha sottolineato che il legislatore non ha inteso assimilare tali forme di collaborazione al lavoro subordinato, ma piuttosto estenderne le tutele “in un’ottica sia di prevenzione che rimediale”, con evidenti finalità antielusive. A fronte dell’impossibilità di ricondurre ad unità tipologica la varietà delle nuove forme di lavoro, la legge si limita a valorizzare alcuni indici fattuali (carattere personale e continuità della prestazione, etero-organizzazione) di per sé sufficienti a giustificare la disciplina di protezione propria del lavoro subordinato, senza che occorrano ulteriori indagini sulla qualificazione giuridica del rapporto di lavoro.

Occorre rilevare che l’attuale emergenza epidemiologica ha favorito l’espansione dei modelli economici basati su piattaforme digitali che, soprattutto nei periodi di lockdown, hanno svolto un ruolo importante nel garantire l’accesso ai servizi. Tuttavia, la crisi ha altresì evidenziato l’esigenza di una regolamentazione del fenomeno che garantisca a queste tipologie di lavoratori adeguate tutele sociali, nonché maggiore sicurezza, anche a fronte della gestione “algoritmica” delle prestazioni di lavoro (ne abbiamo parlato QUI).

Per tale ragione, a febbraio 2021, la Commissione ha avviato una consultazione delle parti sociali europee che fungerà da base per approntare un’azione comune finalizzata al miglioramento delle condizioni di lavoro dei gig workers. La consultazione toccherà diversi temi: status giuridico e condizioni occupazionali; accesso alla protezione sociale, alla rappresentanza collettiva e alla contrattazione; aspetti transfrontalieri; utilizzo da parte delle aziende di algoritmi; formazione e opportunità professionali.

In proposito, Nicolas Schmit, commissario europeo per il lavoro e i diritti sociali, ha commentato: “nel bel mezzo della transizione digitale, non possiamo perdere di vista i principi di base del nostro modello sociale europeo. Dobbiamo sfruttare al massimo il potenziale di creazione di posti di lavoro fornito dalle piattaforme di lavoro digitali, garantendo al contempo dignità, rispetto e protezione per le persone che lavorano attraverso di esse. Le opinioni delle parti sociali al riguardo saranno fondamentali per trovare un’iniziativa equilibrata per il lavoro con le piattaforme nell’Ue”.

Parallelamente all’avvio della consultazione europea, la Procura di Milano ha indetto una conferenza stampa in cui ha annunciato la conclusione di una maxi-inchiesta sulle condizioni di lavoro dei riders e la notifica dei verbali di prescrizione a Uber Eat, Glovo-Foodinho, Just Eat e Deliveroo: alle aziende viene intimato di regolarizzare, quantomeno con contratti di collaborazione coordinata e continuativa, circa sessantamila fattorini, nonché di pagare 733 milioni di euro di ammende per la violazione di norme sulla salute e sulla sicurezza.

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