Il caso Clearview e il Primo Emendamento alla Costituzione americana

Clearview AI, a seguito della citazione in giudizio da parte dell’American Civil Liberties Union (ACLU) per violazione dell’Illinois Biometric Information Privacy Act (BIPA), si difende sostenendo che le attività che pone in essere – relative alla raccolta e all’utilizzo di dati senza il consenso dei soggetti interessati – rientrino tra quelle protette dal Primo Emendamento alla Costituzione americana, con rilevanti ripercussioni sulla tutela della privacy.

Clearview torna a far parlare di sé (ne abbiamo già parlato qui e qui).

Preliminarmente, occorre ricordare che alcuni mesi fa l’American Civil Liberties Union (ACLU) ha citato in giudizio Clearview per violazione dell’Illinois Biometric Information Privacy Act (BIPA), che regola la raccolta, l’uso e la diffusione delle informazioni biometriche. La causa concerne in particolare su questioni relative alla privacy: Clearview AI ha infatti estratto, come ormai noto, circa 3 miliardi di immagini da Internet per alimentare un’app di riconoscimento facciale venduta successivamente alle forze dell’ordine (su riconoscimento facciale e privacy, qui, qui e qui).

La legge dell’Illinois – che a parere dell’ACLU risulterebbe violata delle condotte di Clearview – pone l’attenzione sui metodi di sorveglianza senza consenso che costituiscono una minaccia particolarmente grave per la privacy individuale. Ne farebbe parte il riconoscimento facciale, quale forma di controllo penetrante sulle persone, il cui uso abusivo potrebbe ledere il diritto alla riservatezza dei soggetti coinvolti.

Clearview, dal canto suo, ha sostenuto che le pratiche commerciali che pone in essere sarebbero costituzionalmente protette, riguardando alcune attività che il Primo Emendamento tutela: a parere della società, la raccolta di informazioni disponibili al pubblico, l’analisi di tali informazioni e la condivisione delle conclusioni di tale analisi renderebbe la sua app paragonabile a un motore di ricerca. Come sottolineato anche da diverse testate giornalistiche, tuttavia, un Primo Emendamento che riparasse Clearview e le altre aziende tecnologiche da una regolamentazione relativa alla protezione della privacy – dietro lo schermo della protezione costituzionale – rischierebbe di comportare nocumento non soltanto alla privacy, ma anche alla stessa libertà di parola.

Negli ultimi anni, la Corte Suprema è risultata in effetti essere propensa ad estendere la protezione del Primo Emendamento a una gamma di attività in continua espansione. Le aziende hanno tentato così di difendere dalla regolamentazione le proprie pratiche commerciali caratterizzandole come espressione dell’esercizio della libertà di parola.

Clearview sostiene così che le attività commerciali che pone in essere sono da considerarsi dei veri e propri “speech”, la cui libertà è tutelata ai sensi del Primo Emendamento: se così fosse, qualsiasi legge che regola le attività commerciali della società dovrebbe essere soggetta alla forma più rigorosa di controllo costituzionale, dello stesso tipo di quello che i tribunali applicherebbero a una legge che censura la stampa. La privacy è in realtà da intendersi quale prerequisito per la tutela di tutte le libertà del Primo Emendamento e infatti la Corte Suprema ha affermato che la domanda che i tribunali dovrebbero realmente porsi non è relativa tanto alla capacità della legge di sopravvivere al controllo più severo collegato al rispetto della Costituzione, quanto piuttosto al ragionevole bilanciamento dei diversi interessi in gioco.

Ne deriva che i recenti sviluppi della tecnologia digitale richiedono una regolamentazione che resti imprescindibilmente ancorata ai valori democratici e che non cessi di tutelare gli interessi della collettività, in un bilanciamento che consenta di non pregiudicare alcune libertà fondamentali come quella di espressione.

 

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