Democrazie al cobalto

La retorica della democrazia digitale è alimentata da due principi: la mobilità delle tecnologie e la portabilità dei servizi digitali. Entrambe sono possibili grazie alla sofisticazione delle tecnologie mobili. È attraverso oggetti divenuti ormai di uso quotidiano, per molti addirittura indispensabili, che predichiamo la possibilità di rendere i sistemi decisionali di cui siamo parte più partecipati e trasparenti. Qui però nascono due paradossi. Le materie prime per il cui tramite si alimenta questa retorica di democrazie digitali (più) inclusive e trasparenti, raccontano storie di sfruttamento, emarginazione e prevaricazione.

 

La democrazia digitale è resa possibile da oggetti fisici: i telefoni cellulari e i computer cui affidiamo la nostra dimensione sociale oltre alla gestione di gran parte delle azioni quotidiane. Circa la metà delle componenti di questi strumenti sono metalli. Provengono, in parte, da economie avanzate (il piombo e l’argento del Nord America, ad esempio) e in parte da Paesi in via di sviluppo (lo stagno e lo zinco del Sud America). Alcuni minerali sono più rari di altri. Tra quelli più ricercati c’è il cobalto. Scarsamente presente in natura, difficile da estrarre e laborioso da lavorare – il cobalto è la componente principale per consentire il funzionamento delle batterie al litio che alimentano la gran parte dei prodotti tecnologici che consentono alle democrazie digitali di funzionare.

Due terzi delle riserve mondiali di questo minerale si concentrano nella Repubblica Democratica del Congo, che però sorprendentemente non ne è anche il primo esportatore globale. Il 47,92% della commercializzazione globale di cobalto proviene infatti dalla Cina. Attraverso una holding di aziende controllate, il governo di Pechino acquista la quasi totalità del minerale dal Congo, lo lavora e lo commercializza. Alcune recenti inchieste giornalistiche del Washington Post e della CNN svelano così che la Cina raggiunge oggi una capacità produttiva superiore alle diecimila tonnellate annuali. Grazie a questa, consolida anzitutto una posizione monopolistica sui mercati globali. La Commissione europea stima un aumento della domanda globale di cobalto dal 7% al 13% nei prossimi dieci anni. Il governo di Pechino riesce inoltre a massimizzare il profitto (dal 2016 al 2018 il Prezzo del cobalto è quadruplicato) e conserva una leva politica formidabile nei confronti di grandi aziende, da Apple e Samsung fino alla quasi totalità delle case automobilistiche.

Siamo in presenza di un paradosso. Le materie prime per il cui tramite alimentiamo la retorica di democrazie digitali (più) inclusive e trasparenti, raccontano storie di sfruttamento, emarginazione e prevaricazione. Amnesty International nel 2016 lo ha denunciato pubblicamente: l’estrazione del cobalto in Congo è affidata a minatori improvvisati, privi di esperienza, molto spesso minorenni, che scavano il terreno con attrezzi rudimentali, in assenza di qualsiasi accorgimento per tutelarne la sicurezza e soprattutto in cambio di una retribuzione giornaliera di appena un dollaro e mezzo.

I governi e le aziende conoscono bene questi fatti. I primi però sono reticenti a intervenire, mancando di adottare misure cogenti efficaci. Tra le aziende, alcune hanno adottato contromisure come l’audit dei fornitori che compongono la filiera produttiva del cobalto, la trasparenza delle informazioni finanziarie e il supporto a iniziative umanitarie contro lo sfruttamento umano. Ad esempio, nel 2018 Apple ha aderito allo Stop Slavery Award promosso dalla Thompson Reuters Foundation, impegnandosi a realizzare un piano di assunzioni nei propri negozi in tutto il mondo a favore dei sopravvissuti della tratta di umani.  Si tratta di poca cosa. Ancora nel 2019 l’organizzazione non governativa International Rights Advocates ha presentato una class action presso la corte distrettuale del Distretto di Columbia (Stati Uniti) nei confronti di Apple, Google, Dell, Microsoft e Tesla. La richiesta di indennizzo mira a compensare il lavoro forzato, l’ingiusto arricchimento, la supervisione negligente e l’imposizione intenzionale di stress emotivo a danno di quattordici famiglie congolesi.

Al paradosso se ne aggiunge un secondo: le risposte più efficaci al problema non sono giunte dalla società civile, ma da altri operatori privati, aziende “etiche” che producono e commercializzano prodotti di cui garantiscono la moralità. La più importante è fairphone. Il costo della democrazia digitale libera da accuse di sfruttamento umano non è però alla portata di tutti. Per acquistare l’ultimo modello di telefono “fair” occorrono 500 dollari.

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