The Capture: una giustizia “immaginaria”

“The Capture” è una serie TV britannica il cui filo conduttore è l’utilizzo delle immagini riprese dalle telecamere di sorveglianza e la possibilità che queste immagini vengano manipolate, sia per produrre prova a carico, sia per produrre prove a discarico, in modo che la manipolazione sostituisca interamente la verità e le due siano in effetti indistinguibili.

 

 

Cinema e televisione hanno spesso fatto ricorso a scenari distopici nei quali la tecnologia prende il sopravvento sugli esseri umani e il teorico della cospirazione di turno lotta strenuamente contro un mondo incredulo per poi rivelarsi come l’unico vero detentore della verità, in grado di svelare e disinnescare la cospirazione delle macchine, o degli algoritmi, o, più spesso, delle forze del male che ricorrono alle macchine e agli algoritmi per dominare il mondo.

Il successo della storia, cinematografica o televisiva, dipende spesso da quanto la narrazione è vicina alla realtà: se la storia chiede una “suspension of disbelief” troppo accentuata, siamo nella fantascienza. Se, invece, la storia usa elementi già esistenti e anzi comuni nella realtà di tutti i giorni e li combina in una vicenda con i caratteri della verosimiglianza – probabilmente non è accaduto, ma forse potrebbe accadere – l’attenzione dello spettatore è maggiormente sollecitata.

Fra le serie tv che utilizzano questo schema, particolarmente godibile – e quindi anche preoccupante – è la serie britannica intitolata “The Capture” (6 puntate nella prima stagione, trasmessa nel 2019, è prevista una seconda stagione nel 2020, ma sembra che la pandemia la stia rallentando).

Tutta la storia ruota intorno alla integrità, alla attendibilità e alla manipolabilità delle immagini. Un soldato inglese viene condannato per l’omicidio di un talebano disarmato in Afghanistan, sulla base di un video che mostra le diverse fasi dell’azione, ma in secondo grado la Corte d’appello lo assolve, perché viene dimostrato che il video era stato manipolato e non era ammissibile come prova. Il soldato celebra l’assoluzione con i suoi amici e i suoi avvocati, ma proprio quella sera il suo avvocato (una donna) scompare improvvisamente. Il soldato viene nuovamente arrestato, perché i filmati CCTV mostrano la scena del rapimento dell’avvocato e l’investigatrice incaricata del caso lo identifica grazie alla tecnologia di riconoscimento facciale, anche se il soldato ricorda di aver solo salutato l’avvocato alla fermata dell’autobus ripresa dalle telecamere, mentre lei si avviava verso casa.

La storia prosegue da qui in poi con diversi sviluppi, a volte un po’ tortuosi (sei puntate sono lunghe), che vedono varie cospirazioni e cospiratori incontrarsi e scontrarsi, con l’intervento di diversi servizi segreti, forze di polizia, studi legali e comitati di attivisti a difesa della privacy.

Senza entrare qui nello svolgimento della vicenda, anche per non rivelare troppo a chi avesse voglia di guardare la serie, si può dire che il filo conduttore è l’utilizzo delle immagini riprese dalle telecamere di sorveglianza e la possibilità che queste immagini vengano manipolate, sia per produrre prova a carico, sia per produrre prove a discarico, in modo che la manipolazione sostituisca interamente la verità e le due siano in effetti indistinguibili. Una immagine può essere alterata per provare la colpevolezza della quale gli investigatori sono convinti, ma che non possono dimostrare oltre “ogni ragionevole dubbio”, oppure può essere alterata, e poi smentita, per dimostrare come le forze di sicurezza a volte abusino del proprio potere e adottino misure cautelari o addirittura punitive non sulla base di prove, ma sulla base di convinzioni. O, ancora, l’alterazione può fornire un falso alibi al vero colpevole.

Anche il processo di fronte ad un giudice terzo ed imparziale – e cioè lo strumento principe che nelle democrazie viene utilizzato per accertare la verità – finisce così per essere a sua volta manipolato e deformato, perché l’alterazione delle prove mediante la tecnologia è assai difficilmente…. provabile. Tutta la giurisprudenza in materia di ammissibilità e attendibilità delle prove rischia di perdere di significato o, peggio, di essere strumentalizzata per determinare l’esito del processo a favore della parte che meglio utilizza gli strumenti di manipolazione (sulla giustizia predittiva si veda L. Torchia, Recensione a Garapon A. e Lassègue J., Justice digitale, Puf, 2018).

Naturalmente gli errori giudiziari non sono certo una novità e hanno riempito di sé le cronache (e qualche bel film) anche prima della diffusione capillare delle telecamere di sorveglianza: a Londra ce ne sono 420mila, 50 per ogni mille abitanti, più che a Washington (40 ogni mille abitanti) e a Pechino (20 ogni mille abitanti). Quando passiamo davanti ad una telecamera, però, ricordiamoci che può fornirci un alibi contro un’accusa infondata oppure costituire una prova a carico per un reato non commesso: la giustizia può dipendere da chi ha la proprietà delle immagini. (sull’uso del riconoscimento facciale si vedano V. Bontempi, Un’interrogazione parlamentare sull’uso del riconoscimento facciale in Italia: il caso S.A.R.I.; C. Ramotti, Clearview in USA e privacy: un cambio di paradigma?; A. Mascolo, Facial recognition e law enforcement: “quando sei nato non puoi più nasconderti”?; S. Del Gatto, Riconoscimento facciale e diritti fondamentali: quale equilibrio?; S. Del Gatto, Prove di regolazione del riconoscimento facciale e rischi di cattura del regolatore; M. Mazzarella, Tra Francia e Italia: Alicem e SPID a confronto)

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