La sanzione dell’AGCM ad Amazon: uno squarcio nel velo

La sanzione di 1,3 mld di euro dell’Antitrust italiana solleva dibattiti in ordine alla tenuta del diritto antitrust, alla efficacia delle sanzioni, alle forme di tutela e di intervento nello scenario digitale. Si ritiene, però, che il vero nucleo della questione risieda nel “velo squarciato” dall’AGCM, che interviene sullo scenario dei giganti del web e della loro posizione ormai consolidate. I nuovi “poteri privati”, infatti, da anni sono approdati ai servizi economici tradizionali e vengono ora raggiunti dai decisori pubblici. Ma solo dai giudici e dalle autorità, come in questo caso, perché si è ancora in attesa di un intervento di fondo del legislatore, anche per la ricerca, difficile e spesso mal compresa, di un bilanciamento complessivo. Considerato che il tema è amplissimo, in questo scritto ci si soffermerà su tre aspetti: il cambio di scenario, la (lenta) corsa alla revisione delle politiche pubbliche, i problemi attuali e futuri.

 

Con decisione del 30 novembre 2021 (QUI), l’Autorità garante della Concorrenza e del mercato (AGCM) ha imposto ad Amazon una sanzione di € 1,3 miliardi per abuso di posizione dominante. La decisione ha sollevato un vivacissimo dibattito, sia per l’entità della sanzione, sia per la rilevanza pubblica di un intervento antitrust sulle “Big Tech”, sia, infine, per la curiosità scientifica verso gli strumenti adottati dall’Autorità italiana.

Ad Amazon è stato contestato, in sintesi, l’uso dei propri sistemi di logistica (Fulfilled by Amazon, FBA) che, appositamente integrati con specifiche utilità del sistema di vendita, hanno prodotto la compressione di alternative logistiche — limitando di fatto la possibilità di operatori terzi di intervenire sulla piattaforma, se non alle condizioni e alle modalità stabilite unilateralmente dalla Società statunitense. Più in dettaglio, l’uso della logistica FBA implica vantaggi immediati per i venditori, come la disapplicazione delle metriche di valutazione da parte di Amazon, l’integrazione con l’etichetta Prime, o l’utilizzo di comparazioni e visualizzazioni maggiori (come la buy-box). Amazon è interessata ad assicurare una elevatissima qualità, garantendo alla clientela, come noto, tempistiche rapide. Per ammettere un venditore che si prenda carico anche della consegna, sottopone la sua rete di vendita a precisi standard. Ebbene, con il ricorso alla FBA queste “metriche” sono disapplicate, consentendo ai terzi di accedere immediatamente al sistema e di beneficiare di funzionalità aggiuntive (come Prime o buy-box).

Per l’AGCM, tale strategia comprime le possibilità di scelta dei retailer (anche alla luce della documentazione interna ispezionata: v. par. 771 e 802 del provvedimento). L’Autorità ha ritenuto sussistenti le forme del self-preferencing, ossia la prassi dell’operatore volta a imporre le proprie soluzioni tecnologiche e commerciali ai terzi, se si intendono conseguire determinati vantaggi. Ciò riduce le libere scelte concorrenziali per operatori con minore posizione di mercato. La condotta, quindi, è stata ritenuta abusiva ai sensi dell’art. 102 TFUE. rileva, nell’insieme, ha affermato che “i comportamenti posti in essere dal gruppo Amazon configurano un’unitaria, complessa e articolata strategia con finalità escludente in violazione dell’art. 102 TFUE” (par. 849).

Da notare che il mercato rilevante ha un perimetro nazionale: Amazon, infatti, in base all’analisi dell’AGCM, opera nel “mercato italiano dell’offerta di servizi di intermediazione”. Amazon ha sostenuto la superiorità dei propri servizi in termini di maggiore efficienza (par. 848), ma l’Autorità ha considerato che, a monte, vi fosse una “strategia deliberatamente ideata dalla Società per incentivare i venditori terzi all’utilizzo di FBA”, tale da rendere “FBA l’unica via a disposizione dei retailer per ottenere vantaggi indispensabili per il successo su Amazon.it” (par. 703, 714, 719).

Nel corso del procedimento, Amazon ha anche proposto un rimedio, in base alla disciplina sugli impegni di cui alla legge n. 287 del 1990: l’introduzione del Self-Fulfilled Prime (SFP). Si tratta di una logistica separata, da porre in alternativa all’FBA, che dovrebbe consentire a terzi di operare mediante le proprie strutture. L’Autorità ha ritenuto insufficiente il rimedio, prescrivendone il rafforzamento al fine di conseguire una sostanziale equiparazione con la logistica interna. Nell’adottare il provvedimento, in particolare, il SFP è stato imposto come obbligo, accanto alla sanzione irrogata, affidandolo al controllo di un monitor trustee e prevedendo una relazione in merito a quanto svolto (per la prima volta dopo novanta giorni dal provvedimento e, poi, ogni sei mesi).

La decisione sta suscitando, come accennato, un dibattito accesissimo, diviso tra le critiche per le finalità sottese e per l’interpretazione degli istituti antitrust resa dall’AGCM, e l’interesse per un intervento che è apparso, subito, particolarmente significativo in un’ottica generale. Il provvedimento è scritto in modo approfondito e accurato, offre una ricostruzione dell’intero settore, spiegando in dettaglio tutti i dati fattuali, le soluzioni di mercato e gli strumenti tecnici di cui si avvale il gigante. Viene tratteggiato, quindi, il contesto in cui l’Autorità si è mossa, facilitando la comprensione dell’istruttoria e della sua conclusione, così come delle ragioni alla base dell’applicazione degli istituti giuridici.

Se l’analisi del provvedimento, sotto il profilo squisitamente antitrust, sarà verosimilmente oggetto di analisi corposissime (in particolare, quanto a finalità sottese all’intervento e completezza delle argomentazioni e delle conclusioni dell’AGCM), in questa sede, come anticipato, vorrei soffermarmi su profili più generali: il cambio di scenario, la (lenta) corsa alla revisione delle politiche pubbliche, i problemi attuali e futuri.

Quanto allo scenario, i dati sono evidenti: l’accumulo inesorabile di posizioni di mercato da parte del nuovo potere privato. È lo stesso il provvedimento a parlare di un peso enorme del gigante, classificato tra le Big Tech per eccellenza.

Al par. 651 della delibera, infatti, si legge dell’aumento, negli ultimi tre anni, del 10% dei ricavi, che oggi sono compresi tra il 70 e l’85% dell’intero settore di vendita dei marketplace. Ancora più significativamente, al par.  654 si rappresenta il valore delle vendite dei venditori terzi sui marketplace attivi in Italia: nel 2016 si vedevano Amazon ed eBay su un piano di sostanziale parità (40-45% ciascuno), ma poi vi è stato un allargamento della forbice molto ampio, che ha condotto la prima ad avere, nel 2019, una percentuale dell’85% circa, mentre la seconda è scesa al 10-15%. Dunque, al notevolissimo incremento della prima piattaforma corrisponde una drastica riduzione della seconda. È facile per l’Autorità concludere, al par. 657, per la “superiorità di Amazon rispetto ai suoi competitor in termini di numero di venditori terzi e di consumatori”.

Ciò che la decisione sta “comunicando”, forse anche in modo implicito, è pertanto il complessivo cambio di scenario in cui l’autorità indipendente deve muoversi. Il provvedimento dell’AGCM ci porta in uno “spazio” ormai noto – in verità prima solo dagli specialisti, ma oggi anche dal pubblico – in cui sono cambiati gli attori principali e le dinamiche economiche (e geopolitiche, in senso più ampio che sfugge a questa analisi). Le politiche pubbliche, anche quelle più “tecniche” e “neutrali” (pur sapendo che del termine si fa un abuso), come l’antitrust, non possono non tenere conto degli effetti prodotti da tale scenario – in termini non solo economici, ma anche sociali e di lavoro.

Ne emerge un profilo di interesse di ordine generale, ossia il cambio delle politiche pubbliche. Da anni sta crescendo l’attenzione sul tema e la posizione delle Big Tech, che coinvolge non solo la loro posizione di mercato e la loro forza anche all’interno di servizi tradizionali (come la consegna di beni), ma anche alcuni “presupposti” che sono resi possibili dalla tecnica digitale, vale a dire la raccolta e l’uso massivi di dati (fino al tema, che sfugge alla presente analisi ma che va citato, della sorveglianza e delle libertà). Sono parte del dibattito pubblico, anche non specializzato. Negli Stati Uniti è stata compiuta una indagine biennale, da parte di tutto il Congresso (e, in particolare, del Committee for the Judiciary, di cui, per l’Osservatorio, abbiamo parlato QUI, QUI e QUI), volta ad analizzare la situazione e a proporre rimedi.

Gli elementi da sottolineare sono due.

 

Primo, il ripensamento delle misure antitrust. Si sta costruendo un nuovo diritto della concorrenza, elaborato e pensato per governare il settore dello strapotere dei giganti digitali. Con la particolarità, già segnalata nei post prima citati, che il rapporto statunitense richiama precedenti normative, illustri e risalenti, come l’Interstate Commerce Act del 1887 (per l’accesso alle linee ferroviarie) e il Cable Act del 1992 (per le linee telefoniche). Dunque, l’apparato concettuale che potrebbe scaturirne, pur nell’ottica dell’innovazione, fruirebbe di sforzi teorici e ricostruttivi che la disciplina di settore ha già sperimentato.

Secondo, per il Congresso si dovrebbe aprire una “nuova stagione” di enforcement, con le autorità chiamate a ritornare verso un ruolo forte, più coraggioso e avanzato. Con l’uso di strumenti come l’assicurazione della interoperabilità tra piattaforme e – si noti – proprio contrastando il self-preferencing, ritenuto idoneo a consolidare situazioni esistenti e a ingessare il settore. Il rafforzamento delle capacità di risposta delle autorità nazionali, cioè delle agencies, parte dalla constatazione che queste ultime sono state ritenute responsabili di una risposta blanda alla concentrazione di potere di mercato, quantomeno nel corso degli ultimi venti anni. Non è un caso se a capo della nuova equipe chiamata dall’Amministrazione Biden a ripensare l’impianto pubblicistico figura Tim Wu (autore del libro The Curse of Bigness – che ho recensito QUI per l’Osservatorio – e nominato nel National Economic Council il 5 marzo 2021).

C’è un nodo tra questo discorso (di ordine generale, sulle politiche pubbliche e sui possibili legami delle risposte che si stanno cercando sulle due sponde dell’Oceano Atlantico) e il provvedimento dell’AGCM. Lo strapotere dei grandi nel mondo digitale può determinare, infatti, attività avverse nel confronto dei soggetti minori, anche (o soprattutto) laddove introducano servizi più innovativi. L’AGCM ritiene che i nuovi operatori siano ostacolati da “effetti di rete” e induce a pensare proprio al fenomeno delle killer acquisition: al par. 871, infatti, si legge che “le condotte abusive contestate ad Amazon hanno dimostrato la capacità di ostacolare la crescita delle iniziative di mercato più innovative, proposte da nuovi operatori di logistica integrata e basate sull’impiego di tecnologie d’avanguardia”.

Certamente, è un percorso difficile. Non a caso il provvedimento richiama un precedente giovanissimo eppure già illustre: la sentenza Google Search del Tribunale dell’Unione e, prima di essa, la sanzione irrogata dalla Commissione. La sentenza infatti (di cui ho scritto, per l’Osservatorio, QUI), offre una sponda solida e autorevole nel ragionamento che porta a stigmatizzare gli effetti negativi del self-preferencing e a ricondurli negli istituti giuridici vigenti.

Non a caso, la sentenza è richiamata in diversi punti del provvedimento dell’AGCM (ad es., nei par. 716 e 723, facendo riferimento, tra l’altro, ai punti 182 e 183 della sentenza). Deve ricordarsi, però, anche una differenza di rilievo dal caso Google: la rilevanza, in quel caso, dell’istituto dell’essential facility, non applicabile di converso nel caso analizzato dall’AGCM.

Che insegnamenti possiamo trarre da questo complesso scenario?

La disciplina della concorrenza non sembra essere più sufficiente: i fini sociali iniziano a essere un tema dibattuto all’interno del suo perimetro, proprio di fronte a fenomeni ed effetti causati dal digitale (si pensi alla tutela del lavoro di alcune categorie specifiche, come gli autisti che operano in base alle piattaforme). L’impatto sui consumatori, alla luce di un cambio di mercato generato da provvedimenti simili, è un problema ancora indeterminabile: potrebbe risultare notevole, mentre oggi appare l’ingresso di terzi appare debole o assente. Ma, appunto, solo nell’ottica del singolo, mentre nel complesso delle dinamiche economiche una maggiore apertura avrebbe conseguenze maggiormente percepibili.

Lo testimoniano anche studi più ampi, come il libro di Kate Crawford, recentemente tradotto in italiano (“Né intelligente, né artificiale. Il lato oscuro dell’AI”, che mostra la vera natura dell’intelligenza (cosiddetta) artificiale, riducendone il “mito” attraverso la dimostrazione degli effetti devastanti sull’ambiente, sul mondo del lavoro (si vedano le condizioni praticate per chi svolge attività di data-entry), sulle relazioni stesse tra gli Stati (per l’Osservatorio può leggersi una recensione QUI, un’altra approfondita analisi è QUI).

Del resto, va ricordato che tra le proprie finalità la disciplina antitrust annovera, in ogni caso, anche quelle sociali: con ricerca, niente meno, del benessere generale (che dovrebbe essere proprio di tutta l’economia). La letteratura è chiarissima sul punto e lo stesso Brandeis aveva in mente una convivenza pacifica economica e sociale, che lo spinse a interessarsi al tema quando vide gli stravolgimenti dal lato opposto della politica nazionale e non della tranquilla vita provinciale da cui proveniva.

Allo stato, alcuni fattori appaiono determinanti. L’assenza del legislatore e il riempimento dei “vuoti” in via giudiziaria e amministrativa. Gli ultimi due sopperiscono alle carenze del primo. In Europa stiamo aspettando con grande attenzione l’approvazione del DMA e del DSA, pacchetti legislativi che dovrebbero consentire, almeno nelle intenzioni, una prima risposta sistematica allo scenario dei poteri digitali dominanti. Ma che, quanto a integrazione verticale, ad esempio, non scioglierebbero di per sé i problemi e i dubbi che ha sollevato l’AGCM nel suo corposo e ben scritto provvedimento.

È arrivato il momento di iniziare a colmare le assenze, risolvendo i problemi in modo sistematico? Se ci sono finalità di ordine maggiore, la domanda da porsi è la seguente: a quando la regolazione?

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