“The Curse of Bigness”. Recensione al libro di Tim Wu

Il libro sulla “maledizione della grandezza”, già dato alle stampe più di due anni fa, è stato ripubblicato lo scorso anno in una edizione aggiornata. L’Autore, Tim Wu, ci mostra con grande capacità di sintesi il percorso degli interventi pubblici volti a contrastare l’eccessiva concentrazione del potere economico. Un libro particolarmente adatto al momento attuale, in cui le sfide della corsa alla digitalizzazione impongono ulteriori, serie riflessioni.

Una sensazione di chiarezza. Un ritorno a una precisa dimensione concettuale. Un rimando storico, laddove la fase attuale – e la tanto proclamata “digitalizzazione” – sembra a volte proiettarci in un tempo senza dimensione e senza direzione. Sono queste le reazioni alla lettura del libro di Tim Wu, The Curse of Bigness, uscito nel 2018 e poi in una edizione aggiornata di fine 2020.

Lo sforzo è, complessivamente, notevole e apprezzabilissimo: un volume conciso, chiaro (chi scrive lo ha letto in lingua inglese), che ha la capacità di fornire al lettore un quadro puntuale e una visione d’insieme (non facile a trovarsi). E che ha l’ulteriore pregio di presentare una tesi di fondo: occorre compensare gli squilibri economici che stanno minando non solo il funzionamento del “mercato” (che chi scrive intende in senso relazionale, e mai assoluto), ma la società stessa.

Quale libro migliore in un anno, come quello pandemico, che ha visto una concentrazione senza precedenti di risorse economiche, specialmente a favore delle ormai note Big Tech?

E così Wu (autore prolifico e perspicace analista del mondo di Internet: ricordo qui il Suo “Who controls The Internet?” scritto nel 2006 con Jack Goldsmith, che trattava, nella sua essenza, il tema della perdurante presenza della sovranità statale nella rete de-costruendone le basi eteree) ci conduce in un percorso affascinante, che muove dai primi passi dalla fine del XIX Secolo, per poi portarci nei monopoli del XX e del loro intrinseco legame con i peggiori e più pericolosi autoritarismi, così facendoci comprendere la scuola ordo-liberale (che l’Autore differenzia dal neo-liberismo) e le origini di alcune disposizioni dei Trattati europei. Per poi mostrarci la parabola, discendente, delle teorie che ne sono alla base e dei problemi causati dai mancati o poco efficaci interventi antitrust.

Nel mostrare il pensiero esposto, dunque, l’Autore ricorre a precisi esempi storici, che si rivelano fondamentali. I monopoli della Germania e del Giappone prima della Seconda Guerra mondiale sono presi a modello del rischio che si corre quando gli Stati rinunciano a intervenire per creare condizioni di una economia libera, con regole e freni; ancor più, quando gli Stati sposano l’ottica di creare un connubio indissolubile con i poteri economici maggiori, nell’illusione della creazione di strutture nazionali da competizione che, però, schiacciano le dinamiche più proficue, assorbono energie, chiedono sempre maggiori risorse – fino all’elaborazione di politiche espansionistiche. Il ruolo della concentrazione economica rispetto alla concentrazione di potere politico è, dunque, diretto. La consequenzialità tra le dimensioni e la fame di conquiste, che avrebbe portato allo straziante conflitto del 1939-1945. La cui Storia è nota per dover essere raccontata.

I richiami storici non sono solo quelli dei terrificanti primi decenni del XX Secolo. L’Autore ricorda anche casi recenti, come quello del trust delle industrie della carne brasiliane, finite con la creazione di un colosso che ha avuto notevoli spalleggiamenti politici e che poi è crollato quando tali legami si sono dissolti. Ma è crollato dopo aver prodotto danni all’economia collaterale, non solo a livello nazionale ma anche internazionale. Altri due casi vengono citati che concernono lo stesso processo di espansione, con addentellati statali, che si sono infranti sugli scogli da loro stessi creati – scogli fatti dalla sconfitta dei singoli, di altre imprese schiacciate dal loro peso, delle classi povere e dello stesso ambiente, tritato dinanzi a una conquista privata e statalista.

Sono otto i capitoli in cui si divide il libro: l’attuale situazione e “dove ci ha condotti”; la storia perduta del Secondo conflitto mondiale; la tradizione antimonopolistica; il picco delle attività di contrasto al monopolio; l’esplosione tecnologica degli anni ‘80 e ‘90; il trionfo del Neoliberlismo (in inglese definito NeoLiberalism); il problema del “monopolio globale”; l’ascesa dei Tech Giants. Fanno da sfondo alcune conclusioni, che riassumono il pensiero esposto dall’Autore nelle pagine del libro dense di critica.

L’antitrust e la cultura che ne è alla base sono viste come il modello cui guardare, il vero contrappeso ai rischi della concentrazione (si ripete, prima economica e poi politica: “economic concentraion that facilitates political agency”): una lezione che risale a Brandeis, il Giudice della Corte Suprema ricordato per la “creazione” del diritto alla privacy (con Warren), che qui riscopriamo come teorico di una società funzionante, in cui vi siano equilibri anche nei rapporti tra privati, nella loro dimensione economica.

Particolare attenzione viene posta alla Scuola di Chicago. Wu ne contesta il pensiero e ne ricostruisce la fallacia scientifica e analitica. Mostra, seppure in sintesi, come il postulato economico della scuola sia stato favorito da una manovra coordinata, basata sull’eloquenza e sulla ripetizione, prima che sulla validità teorica. Uno dei fondamenti della Scuola, nota per i suoi postulati estremi e per la loro applicazione a partire dagli anni Ottanta, è stata quella di acconsentire alla crescita delle aziende, anche in senso monopolistico, purché portasse benefici ai consumatori in termini di riduzione dei prezzi. Un cardine che viene contestato e rigettato in modo profondo, svelando la fallacia dell’integrazione verticale e l’effetto di ingolfamento dell’economia, così come di ingessamento dell’innovazione.

La “decadenza” di azioni antitrust significative è correlata, per l’Autore, proprio alla diffusione del pensiero della Scuola di Chicago e della massimizzazione dei benefici dell’utente in termini di riduzione di prezzo. Fattore che, per lo studioso, è irrilevante, se non si considerano le dinamiche complessive – potendosi, al contrario, generare danni molto maggiori da una mancata comprensione dei rischi legati alla dominanza di alcune imprese e alla integrazione (soprattutto verticale). Il taglio è, dunque, feroce: Tim Wu smonta anche i sostrati concettuali giuridici della scuola, quando mostra come l’attenzione ai prezzi (il beneficio del consumatore) è nullo rispetto alle pratiche di verticalizzazione che uccidono l’innovazione.

Amaramente, Wu constata come il favor verso le grandi concentrazioni sia stato – per almeno tre decenni – visto con favore dalle stesse istituzioni, in America come in Europa. Con una certa miopia, quantomeno, visto che molte concentrazioni sono state permesse senza solide basi e senza analisi davvero approfondite – come il libro cerca di dimostrare.

Fa da cornice a tale storia culturale e istituzionale anche la cronaca degli interventi: da quelli riusciti, come i casi dell’IBM (più negli effetti conseguenti, in verità, che nel caso in sé e per sé) e, soprattutto, dell’At&T. Viene poi citato il caso Microsoft degli anni Novanta, con tutte le sfumature che lo hanno connotato. Il caso Microsoft è poi finito, sotto altra angolazione, anche nelle mire della Commissione europea, che ha prodotto alcuni cambiamenti senza però stravolgere l’assetto complessivo.

Non mancano, in questo senso, anche critiche alle istituzioni europee, colpevoli di non aver visto, o di aver visto con favore, gli effetti di concentrazioni di grandi operatori – nella convinzione, che l’Autore contesta, che solo dimensioni maggiori potessero conferire solidità ai player in un contesto globalizzato. Al contrario, Tim Wu ci riporta a quelle visioni di origine che richiedono un equilibrio, in cui vi sia spazio per una sana coesistenza di soggetti, economici e non, che possano produrre benefici per la collettività e non diventino, invece, una minaccia.

La Storia ha testimoniato, dunque, vere e proprie assenze, susseguitesi negli anni successivi al 2000, quando si è preferito, anche da parte delle istituzioni, cedere al fascino della grandezza, presunta foriera di efficienza. Il tema è attualissimo, soprattutto in chiave pubblicistica: come ha scritto recentemente il New York Times, “governments are moving simoultaneously to limit the power of tech companies with an urgency and a breadth that no single industry had experienced before”. L’efficacia delle misure sarà tutta da dimostrare. Ma è certo che, di fronte proprio perché il discorso richiama temi di grande attualità, la lettura del libro farebbe benissimo a tutti coloro che si interessano da vicino della materia. Ma anche al pubblico in generale, considerando che le Big Tech sono ormai di dominio pubblico. E non solo: considerando che è imprescindibile, un rovesciamento di determinate ottiche, una conoscenza storica degli andamenti dell’economia e delle teorie che ne sono alla base, che hanno influenzato in maniera enorme la legislazione e le attività regolatorie conseguenti.

Come è possibile uscirne? Secondo l’Autore, solo una presa di coscienza reale e una rivisitazione profonda delle teorie economiche potranno cercare di ricercare un equilibrio già molto compromesso; servono però un grande coraggio e un rinvigorimento delle azioni da intraprendere. Prima di tutto, forse, serve un chiarimento in ordine all’obiettivo di fondo: realizzare un sistema economico che non pregiudichi le possibilità stesse di una convivenza pacifica, lontana da appetiti di conquista e idonea a consentire una convivenza dignitosa e un libero esercizio del fondamentale diritto al lavoro – così come, più in generale, la difesa dei capisaldi del sistema democratico.

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