L’US House of Representatives si muove: l’indagine su Big Tech e concorrenza

Pubblicato un importantissimo Rapporto dell’House Commitee on the Judiciary sulla dominanza di Amazon, Apple, Facebook e Google nello scenario digitale. Un passo importante e coraggioso che ammette ormai chiaramente come l’incremento esponenziale di potere delle big tech  sia un problema generale, in grado di pesare non solo sul sistema economico, ma anche su quello democratico. Una situazione generata da comportamenti e tecniche distorsive, che hanno avuto l’effetto di chiudere la strada ad altre aziende (proprio da parte di coloro che, alle origini, hanno beneficiato di tale apertura). Situazione che indica come sia necessario un intervento legislativo, che adegui le legislazioni nazionali — e non più solo risposte puntuali da parte di alcune corti. Alla modifica legislativa, può sin d’ora aggiungersi il tema dell’attuazione, che sarà un fattore altamente problematico, in cui risiederà il nucleo del problema amministrativo correlato al settore. In questo primo post, dopo una breve introduzione sul Rapporto, vengono analizzati i rimedi tracciati dal Comitato in materia di economia digitale. Ne seguiranno altri due, sempre per l’Osservatorio, sulle proposte di modifica normativa e sul piano dell’enforcement.

 

We no long own our own computers. Big Tech does”. Randy Watson, in un commento sul sito del New York Times.

 

The open internet has delivered enormous benefits to Americans, including a surge of economic opportunity, massive investment, and new pathways for education online”. Oggi, però, “there is growing evidence that a handful of gatekeepers have come to capture control over key arteries of online commerce, content, and communications”. Accanto a queste considerazioni, viene messa in luce la dimensione globale del fenomeno, sottolineando il ruolo delle “Big Tech” non solo nell’economia USA, ma in tutto il mondo. La marea crescente di concentrazioni e posizioni consolidate è però, oggi, una minaccia per l’economia.

Da dove vengono questi commenti? Dall’indagine sui mercati digitali (Digital Markets Investigation) svolta dal House Commiteee on the Judiciary (sono stati espressi, rispettivamente, del Chairman del Comitato, Nadler, Deputato dello Stato di New York, e da Collins, della Georgia). Il rapporto è frutto di una indagine bipartisan, che ha consentito di gettare uno sguardo d’insieme, con prospettiva istituzionale, sulle dinamiche reali, economiche e giuridiche, che l’evoluzione del digitale sta comportando.

Il corposissimo rapporto (451 pagine, qui il testo e qui il comunicato stampa), basato su una indagine di sedici mesi con analisi di 1,3 milioni di documenti, audizioni (compresi i CEO dei maggiori “imputati”) e numerose richieste di documentazioni, cerca di rispondere a domande vive e attualissime; poste da diversi anni dai più avveduti (“Over the past decade, the digital economy has become highly concentrated and prone to monopolization”), tali domande trovano, ora, una prima importante risposta sul piano istituzionale (anche se ancora in un solo ordinamento nazionale).

Al centro dell’indagine sono le quattro aziende dominanti (globalmente, appunto, non solo a livello nazionale): Amazon, Apple, Facebook e Google, che forniscono le “piattaforme” frutto della loro capacità tecnica — e, oggi, del loro potere monopolistico (“Subcommittee staff found evidence of monopolization and monopoly power”). Si noterà l’assenza di Microsoft, per formare il cd. gruppo GAFAM: l’azienda di Redmond non è stata interessata dall’indagine (ricordando che un’indagine antitrust fu condotta negli Stati Uniti nel 1998 e, nel 2003, in Europa, dalla Commissione). C’è un punto da cui partire: Internet ha apportato immensi benefici alla società e sono state accolte con favore in ogni parte del mondo. Ma, così come altrove, anche nel Paese in cui Internet è nata, sono stati scoperti anche i suoi side effects e la capacità di incidere in modo negativo sugli assi portanti dell’economia. Con la creazione e la crescita esponenziale, per quanto interessa, di nuovi poteri privati, che dialogano da pari a pari con i soggetti detentori del potere pubblico: gli Stati. “These firms have too much power“, si legge a p. 7, “and that power must be reined in and subject to appropriate oversight and enforcement. Our economy and democracy are at stake”.

 

La crescente attenzione generale al tema ha condotto, dunque, a questa estesa indagine da parte della Lower House del Congresso.

Le quattro aziende dominanti sono accusate di diverse strategie, che hanno prosciugato i bacini dei concorrenti, inciso i mercati collaterali, creato colli di bottiglia, attraverso numerose tecniche e con il fine di consolidare la propria dominanza e frenare i concorrenti. La sintesi del Comitato è piuttosto impietosa: “numerous businesses described how dominant platforms exploit their gatekeeper power to dictate terms and extract concessions that no one would reasonably consent to in a competitive market. Market participants that spoke with Subcommittee staff indicated that their dependence on these gatekeepers to access users and markets requires concessions and demands that carry significant economic harm, but that are “the cost of doing business” given the lack of options” (p. 11).

Per ognuna, sono stati identificati e analizzati i comportamenti tenuti (dalla ricerca online di Google, sfruttata per accrescere esponenzialmente le informazioni a disposizione, al lock-in del sistema iOS, fino alle pratiche invasive di Facebook — p. 133 ss. del Rapporto; per una sintesi, si può vedere quanto riportato dal NYT). Espone con dovizia di particolari i mercati analizzati, gli strumenti in uso e i servizi resi, dai browser agli store; riporta le indagini svolte, le audizioni tenute, i documenti analizzati.

Ai pesanti interrogativi di fondo sulla evoluzione dello scenario delineato, che giungono a mettere in crisi, per il Comitato, il rapporto con la stampa e lo stesso sistema democratico, il rapporto offre un quadro non solo in termini conoscitivi, ma anche propositivi. Indicando, dunque, le misure raccomandate per far fronte alla sempre maggiore concentrazione di potere in capo ai soggetti dominanti e per ripristinare una situazione concorrenziale che riapra il settore ad altre aziende e iniziative economiche.

L’approccio è quello tipicamente antitrust. Partendo, dunque, dalla fine del Rapporto, si intende riportare quanto raccomandato dal Congresso USA al termine della propria corposa indagine. Le azioni sono divise in tre aree: qui si tracceranno quelle relative al “Restoring Competition in the Digital Economy” — mentre Benedetta Barmann, su questo Osservatorio, si occuperà delle conclusioni relative al rafforzamento della normativa antitrust — Strengthening the Antitrust Laws”. La terza area, “Strenghtening Antitrust Enforcement” sarà oggetto di un’analisi comune.

 

Per “ripristinare la concorrenza nell’economia digitale”, il Committee ha proposto cinque azioni.

Innanzitutto, occorre ridurre i conflitti di interessi, attraverso separazioni strutturali e funzionali e restrizioni alle linee di business (“Reduce Conflicts of Interest Thorough Structural Separations and Line of Business Restrictions”). Il Comitato, in merito, ha dapprima esposto i fattori considerati essenziali nella attuale posizione di dominanza dei maggiori attori dello scenario (big tech): ciò avviene non solo nella distribuzione, ma dalla integrazione delle linee di business e nella presenza in mercati attigui a quelli in cui esercitano la loro attività principale. I comportamenti che generano tale dominanza sono quattro (p.380). Primo, l’uso sproporzionato dei dati raccolti, sia in assoluto, sia perché sono stati utilizzati come vere e proprie armi contro i propri competitors. Per il Comitato, comunque, è anche l’accesso ai mercati a essere decisivo, e non solo la raccolta dei dati (“The Subcommittee’s investigation, however, produced evidence that the platforms’ access to competitively significant market data is unique”). Secondo, lo sfruttamento della integrazione, sia nei vari mercati, sia nei rapporti negoziali con i terzi (“dominant platforms can exploit their integration by using their dominance in one market as leverage in negotiations in an unrelated line of business”). Terzo, la “legatura” di prodotti e servizi, che condizionano gli utenti (imprigionandoli) e mettono le singole piattaforme al riparo dei concorrenti. Quarto, l’utilizzo di profitti di entità siderale come sussidi per entrare in altri mercati (“these firms can use supra-competitive profits from the markets they dominate to subsidize their entry into other markets”). La linea generale è quella di raccomandare “that Congress consider legislation that draws on two mainstay tools of the antimonopoly toolkit: structural separation and line of business restrictions”. La restrizione dei mercati e la loro ristrutturazione consentiranno, nella visione del Comitato, di monitorarne meglio il funzionamento e di poter adottare strumenti calibrati e appropriati. Una visione non solo dell’ambiente economico, dunque, ma anche degli strumenti amministrativi con cui intervenire in maniera efficace.

Secondo, occorre applicare regole per pervenire la discriminazione, il favoritismo e l’auto-preferenza (“Implement Rules to Prevent Discrimination, Favoritism, and Self-Preferencing).

Questa linea di intervento intende rispondere alla preferenza accordata dagli operatori dominanti ai propri prodotti e servizi. Questo incide in maniera molto consistente sui concorrenti. Una situazione di collo di bottiglia, con i “big” a controllare e restringere l’accesso ai mercati, definendo winners e losers (viene richiamato all’Interstate Commerce Act del 1887, che proibì trattamenti discriminatori delle ferrovie, ma anche il Cable Act del 1992, volto a frenare condotte anticompetitive degli operatori infrastrutturali).

Una terza linea concerne la promozione di politiche di innovazione, favorendo interoperabilità e open access (Promote Innovation Through Interoperability and Open Access, p. 385). Qui sono individuate due strategie. Primo, si tratta di rivitalizzare la dinamica che, in generale, verte sull’apertura dei sistemi utilizzati (come lo è il protocollo che usiamo per le email, ad esempio). Gli switching costs sono espressamente considerati e ritenuti un ostacolo all’apertura, perché sono molto alti e non facilitano il cambiamento da parte dei singoli rispetto a sistemi consolidati, anche in base alle loro abitudini nell’uso di determinati sistemi operativi (situazioni di lock-in). Secondo, viene citato il tema della data portability: strumento che sarebbe in grado di ridefinire il rapporto degli utenti con le singole piattaforme e ridimensionare il peso di queste ultime (p. 388).

Il quarto tassello è costituito da una modifica della disciplina sulle merger acquisition: sono da vietare le acquisizioni societarie che hanno avuto l’effetto — e l’obiettivo — di acquisire le imprese concorrenti (spesso agli stadi iniziali di sviluppo e comunque non in grado di fronteggiare i giganti). Il tema è delicato, in quanto richiede un enorme sforzo sul piano dell’enforcement. Il Rapporto riconosce come “It is unclear whether the antitrust agencies are presently equipped to block anticompetitive mergers in digital markets”: vanno quindi rafforzati i poteri e gli strumenti di diritto amministrativo per consentire un’effettiva applicazione delle misure a venire e un controllo sul loro rispetto.

Il quinto, volto a rivitalizzare la stampa, intende modificare il sistema di negoziazione tra case editrici, broadcaster e big tech, al fine di poter consentire maggiori margini di manovra ai primi due (ma qui vanno citate voci contrarie per le quali la stampa deve salvarsi da sé, come sostiene l’Economist). Queste aziende “wield their dominance in ways that erode entrepreneurship, degrade Americans’ privacy online, and undermine the vibrancy of the free and diverse press” (p. 7).

Il sesto punto, infine, mostra l’intenzione di realizzare il due process per limitare il bargaining power, ossia quella capacità delle big tech di condizionare le condizioni economiche (di entrata, di offerta agli utenti, di accesso a mercati paralleli), grazie alla loro posizione di unico accesso ai maggiori canali digitali utilizzati (p. 391).

 

L’operazione compiuta dal Congresso può considerarsi importantissima. Accolta con grande favore, susciterà naturalmente numerosissime polemiche, ma presenta un dato di fondo: i Legislatori iniziano a guardare con preoccupazione al fenomeno. Non per essere necessariamente contrari a tali aziende — di cui anzi vengono richiamati, anche in apertura del Rapporto, i benefici generali apportati da alcuni dei loro servizi. Ma per aprire una luce sulle dinamiche che hanno reso possibile una simile dominanza (“have captured control over key channels of distribution and have come to function as gatekeepers”); dinamiche poco chiare e che non rendono giustizia alla stessa storia di tali aziende, nate da piccolissimi contesti (i famosi “garage”) e che, se applicati anche allora, non avrebbero consentito ai quattro giganti di crescere e affermarsi (“To put it simply, companies that once were scrappy, underdog startups that challenged the status quo have become the kinds of monopolies we last saw in the era of oil barons and railroad tycoons”: p. 6).

Nel merito, l’impostazione del Rapporto è tipicamente antitrust. Delle proposte di modifica, come anticipato, scriverà Benedetta Barmann. Qui si può dire, però, che manca una prospettiva regolatoria: mentre è proprio la regolazione, con i suoi rimedi ex ante, ad avere i caratteri per aprire settori ormai sottratti al gioco concorrenziale. Dovrebbe essere ritenuta migliore rispetto al diritto della concorrenza, quantomeno in una fase iniziale e di rottura: è una questione di strumenti utilizzabili e di capacità di anticipare l’evoluzione degli scenari (in qualche modo lo si afferma qui). È pur vero, allo stesso tempo, che questo approccio, diverso dalla regolazione indipendente, costituisce una differenza di fondo dell’approccio statunitense rispetto a quello europeo – e rispecchia una differenza culturale nelle relative politiche pubbliche. Dunque, non stupisce che tale differenza (che origina anche dalla differenza strutturale dei mercati europei rispetto a quelli nordamericani) si ritrovi nel Rapporto del Congresso. Da notare, inoltre, che le soluzioni non possono nemmeno essere totalmente uguali: mutano in base a ciascuno dei quattro soggetti interessati, che operano in mercati diversi e hanno adottato strategie differenti (p. 382).

La strada, dunque, è aperta, ma il segnale arrivato da Washington è di rilievo. Poiché, come si ricorda nello stesso testo, sono stati frequenti i contatti e lo scambio di vedute con la Commissione europea, è auspicabile un intervento similare anche nel vecchio continente.

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