La partecipazione digitale (in)sostenibile

Il tema delle ‘tecnologie civiche’ occupa un posto di primo piano nella narrazione delle tecnologie digitali a sostegno di democrazie più aperte e inclusive. Si tratta di iniziative ideate, sviluppate e poi messe in pratica da attivisti civici che vedono nel progresso tecnologico uno strumento utile a veicolare efficacemente le istanze dei portatori di interesse non organizzati nei processi decisionali. Ibride per natura, sospese a metà tra l’iniziativa imprenditoriale e la natura no-profit, le tecnologie civiche ambiscono all’autosufficienza finanziaria. Questo è il loro limite più grande. Fino a che punto iniziative non sostenibili economicamente possono garantire la durevolezza dell’impatto che promettono di imprimere sui processi democratici? Non solo. Siamo sicuri che le tecnologie civiche siano realmente inclusive?

 

L’ultimo decennio registra una diffusa sofisticazione della mobilitazione civica digitale. Più o meno ovunque nelle democrazie occidentali, nascono piattaforme digitali e applicazioni mobili pensate allo scopo di coordinare le interazioni tra cittadini e amministrazioni (ne abbiamo scritto QUI, QUI e QUI). A idearle e realizzarle non sono i governi. Se ne occupano attivisti civici che trovano nel progresso tecnologico un potente alleato per veicolare efficacemente le proprie istanze all’interno dei processi decisionali. Danno così vita a una nuova categoria di impegno civico: la civic technology. Code for America, ad esempio, si preoccupa di colmare i divari digitali tra cittadini e governi; Regards Citoyens in Francia utilizza la tecnologia per rendere più trasparente l’azione pubblica – l’equivalente italiano si chiama OpenPolis.

I tentativi di classificare le tipologie di tecnologia civica sono innumerevoli. Tra questi, ad esempio, quello di Matt Stempeck, che individua tre categorie: ‘conformiste’, ‘riformiste’ e ‘trasformiste’, a seconda del livello di innovazione che le tecnologie civiche promuovono all’interno dei processi pubblici. Omydar Network le divide invece tra iniziative ‘da cittadino a cittadino’, ‘da cittadino a governo’ e ‘GovTech’ (di GovTech ho scritto QUI e QUI).

La tecnologia civica suscita però reazioni contrastanti. Secondo alcuni è la soluzione ideale ai problemi delle democrazie: crea un canale per veicolare in modo ordinato le istanze dei cittadini alle sedi istituzionali che, a loro volta, ne beneficiano in termini di trasparenza e condivisione delle decisioni. Tutto vero, se non fosse che alle domande degli scettici non sono offerte risposte esaustive. I critici si interrogano, anzitutto, della sostenibilità economica di queste iniziative. Parliamo infatti di attività imprenditoriali che, pur non ambendo necessariamente al profitto, mirano quanto meno a divenire sostenibili. Di qui la domanda: in che misura la ricerca dell’autosufficienza finanziaria rappresenta un ostacolo alla durevolezza dell’impatto che le tecnologie civiche possono imprimere sui processi democratici?

Il dato è chiaro: 90% delle startup civiche ‘chiude’ in meno di dieci anni. È innegabile, allora, che la sostenibilità diviene elemento dirimente per garantire la longevità dei diritti di partecipazione. In sostanza, agli utenti è consentito partecipare fintanto che investitori generosi sono disposti a sostenere le tecnologie civiche che veicolano la domanda di partecipazione. Se però legittimiamo l’espansione o la compressione degli spazi democratici in base alla disponibilità di finanziamenti privati finiamo per porre una condizione inaccettabile alla maturazione di una democrazia digitale: quella del capitale.

C’è poi un secondo problema legato all’utilizzo delle tecnologie civiche. Siamo sicuri – si chiedono i critici – che queste iniziative garantiscano a tutti le stesse possibilità di partecipare? Anche qui la risposta è negativa, per due motivi. Il primo è noto (e trasversale rispetto alla tecnologia): il divario di competenze e cultura digitali. Per cui può accadere che alcuni traggano beneficio dall’utilizzo delle tecnologie civiche, a discapito di altri che, marginalizzati, vedano i loro interessi allontanarsi ulteriormente dal baricentro delle decisioni pubbliche. Altre perplessità emergono quando si osservano più da vicino le abitudini di utilizzo della platea degli aderenti a queste applicazioni. Accade cioè che tra coloro che accedono alle tecnologie civiche, inevitabilmente alcuni siano più attivi di altri. Questo non è necessariamente un problema, tranne quando restituisce un risultato che, ancora una volta, suona paradossale: esclusione anziché inclusione sociale.

Un esempio ci aiuta a chiarire la dimensione del problema. Nel 2012 la città di Boston avvia una sperimentazione con l’applicazione mobile ‘StreetBump’. Tramite questa i residenti possono segnalare all’amministrazione dissesti del manto stradale. Le segnalazioni attivano una squadra di tecnici comunali che interviene sul posto, ponendo rimedio al dissesto. Tutto perfetto, all’apparenza. L’amministrazione cittadina si rende presto conto che le segnalazioni arrivano quasi esclusivamente dai residenti dei quartieri benestanti, in prevalenza bianchi, di sesso maschile. Un’applicazione nata soprattutto per ridurre le disparità sociali stratificate nel tessuto urbano, aveva finito per acutizzarle. Ciò a dimostrazione di due fatti: primo, non basta un innesto tecnologico per appianare gli squilibri che affliggono una comunità; secondo, la disparità di accesso e uso della tecnologia sono problemi rispetto ai quali l’offerta di democrazia digitale non riesce ancora a sperimentare soluzioni adeguate.

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