Il ‘Minilateralismo digitale’ – Sistemi di governo reticolari e tecnologie emergenti

L’innovazione tecnologica non sollecita solamente l’azione regolatoria di governi e poteri pubblici sovrastatali; incide anche sulle strutture pubbliche deputate a prevenire i rischi legati all’applicazione delle tecnologie e a sfruttarne i benefici. Nascono così nuove forme di cooperazione tra organismi governativi – reticoli transnazionali di competenze e informazioni. Si tratta di cooperazioni finora inedite, prevalentemente informali, tra tecnici prima ancora che politici – e per questo diverse rispetto a forme più tradizionali di cooperazione internazionale multilaterale. Il ‘minilateralismo digitale’, come lo definiscono gli studiosi, ha molti pregi. Colma, ad esempio, un vuoto di potere nel quadro delle relazioni internazionali. Agevola anche la formazione di una cultura digitale omogenea, che riduce le distanze tra sistemi giuridici. A quale ‘prezzo’ ottiene questo risultato? Non sempre queste forme di cooperazione garantiscono stabilità e durevolezza dei risultati.

 

Il D-5 (Digital Five) è nato nel dicembre 2014. Ne fanno parte i cinque governi (auto-proclamatisi) nazioni più tecnologicamente avanzate al mondo: Estonia, Regno Unito, Israele, Corea del Sud e Nuova Zelanda. Nulla di particolarmente nuovo, a prima vista. L’arena sopranazionale è popolata da centinaia di organizzazioni di cooperazione inter-governativa. Il D-5 è parte di una famiglia numerosa. Come per molti altri organismi di cooperazione internazionale, nasce infatti per favorire lo scambio di informazioni e competenze tra governi. Nel caso specifico si tratta di tecnologie digitali. I cinque membri si impegnano peraltro allo sviluppo, in condivisione, di progetti di avanzamento tecnologico. Anche qui, nulla di nuovo.

A ben guardare, tuttavia, ci sono almeno tre tratti inediti (o, quantomeno, rari) che descrivono il D-5, separandolo dagli altri componenti della famiglia di cui è parte. Primo, la difformità di visione politica dei soggetti che ne fanno parte. I Paesi membri del D-5 divergono su temi importanti di politica internazionale. Questo, in effetti, è un tratto desueto. Pensate alle posizioni di alcuni membri rispetto l’asse transatlantico, oppure alle relazioni diplomatiche e commerciali di questi con i governi russi e cinese. Dunque, alla base del patto non c’è una visione necessariamente comune su temi generali, ma la genuina intenzione di sviluppare progetti di avanzamento tecnologico che possano beneficiare i componenti dell’alleanza. Circostanza che, peraltro, potrebbe aiutare a spiegare alcune assenze eccellenti – la Francia e Singapore, ad esempio (tra i Paesi tecnologicamente più avanzati al mondo – come indica l’e-Government Development Index delle Nazioni Unite).

La seconda peculiarità del D-5 riguarda il metodo di lavoro. Rispetto al ben più noto ‘fratello maggiore’ – il multilateralismo promosso da organizzazioni internazionali come la World Trade Organisation o le Nazioni Unite – il D-5 si basa su una cooperazione informale tra strutture burocratiche serventi i vertici politici e si alimenta della fiducia reciproca tra i funzionari che ne fanno parte. Il clima informale è una prerogativa talmente importante da giustificare la creazione di una definizione ad hoc per questo tipo di cooperazione: minilateralismo, in opposizione alla formalità e strutturazione che contraddistinguono il lavoro delle istituzioni multilaterali che dominano la scena internazionale.

Terza e ultima peculiarità: il minilateralismo digitale è diverso anche dalle altre forme di minilateralismo, che operano però in settori diversi, in particolare quello delle politiche ambientali. I ‘climate clubs’ nascono prevalentemente per rafforzare le negoziazioni a livello politico, creare incentivi alla compliance e sostenere i processi di negoziazione multilaterali, cui infine afferiscono. Nel caso del D-5 il vertice politico subentra solo occasionalmente, e mai con un ruolo decisivo. Avalla, semmai, i risultati della negoziazione a livello burocratico. È l’ulteriore conferma del fatto che nelle questioni legate alla governance digitale, la componente tecnocratica è preponderante rispetto a quella politica.

Il Bennett Institute of Public Policy, la scuola di politiche pubbliche dell’Università di Cambridge, qualifica il minilateralismo digitale come nuovo standard nel panorama delle relazioni internazionali. È uno standard di cooperazione reticolare e informale che promette benefici importanti. Colma, anzitutto, un vuoto di potere. Si colloca al di sopra delle (numerose) iniziative di cooperazione ‘di area’, operanti cioè a livello locale o regionale. Un esempio: l’accordo di cooperazione transfrontaliera tra Estonia e Finlandia sullo scambio dei dati. Al tempo stesso, il nuovo standard si trova un gradino più in basso sia rispetto alle forme tradizionali di cooperazione multilaterale (lo abbiamo detto poco fa: queste ultime coinvolgono un numero maggiore di attori e hanno generalmente un approccio più ampio ai problemi) sia rispetto ad altre forme ibride di governance sopranazionale e cooperativa in ambito tecnologico – ad esempio l’Internet Governance Forum, oppure le forme di co-governance e digital commons architecture proposte dalle Nazioni Unite.

Secondo beneficio: il minilateralismo digitale agevola la formazione di una cultura digitale omogenea, riducendo la distanza tra sistemi giuridici e valoriali nazionali. Viviamo una fase storica dominata da grandi aziende multinazionali (che oppongono resistenza ai tentativi di regolazione, sfruttando proprio la natura transnazionale delle loro operazioni) e da orientamenti politici che oscillano tra protezionismo e liberismo e divergono fortemente su temi cruciali come la libertà di espressione, la tutela della sfera di interessi di ciascuno e sulla tutela del marchio. Strutture reticolari ibride di cooperazione potrebbero quindi offrire una soluzione utile all’identificazione di soluzioni condivise, contenendo la parcellizzazione degli approcci – o, peggio, l’assenza di regole.

Tutto questo però ha un prezzo, quantificabile in stabilità e durevolezza. In prima battuta, la cooperazione che nasce con il minilateralismo è, per sua natura, meno stabile rispetto ad altre. Se dunque l’informalità agevola decisioni rapide, è anche meno stabile. Non a caso, nell’arco di appena cinque anni, il D-5 si è trasformato in modo significativo. Nel 2018 ha accolto tra i membri anche i governi canadese e uruguagio. Nel 2019, poi, da D-7 è diventato D-9, a seguito dell’ingresso di Portogallo e Messico. Con l’arrivo di un ulteriore membro, la Danimarca, la struttura ha abbandonato la numerazione, divenendo solo DN – Digital Network. Di certo l’allargamento dei componenti ha reso più incisivo l’impatto globale delle decisioni prese. Ha anche accresciuto il capitale di conoscenze e competenze che ne fanno parte. Al tempo stesso si è avvicinato a problemi comuni alle forme di cooperazione multilaterale: decisioni più lente, maggiore frequenza di divergenze di visione e burocratizzazione dei processi.

Il secondo costo del minilateralismo digitale è conseguenza del moltiplicarsi di strutture e iniziative simili e in competizione tra loro. Le strutture reticolari di cooperazione sulla governance digitale sono andate aumentando negli ultimi anni, sommando gli interessi in base ai criteri più vari: la prossimità geografica, la visione politica, o anche per mera opportunità commerciale. Nel 2018, presso la Harvard Kennedy School, è nato Public Digital – forum cui partecipano i funzionari apicali dalle amministrazioni di tutto il mondo; l’anno precedente nasceva il OneTeamGov, patrocinato dal governo del Regno Unito, e partecipato da Svezia, Canada, Norvegia, Finlandia e Nuova Zelanda. Nel 2019 invece GovInsider ha unito cinquanta governi da tutto il mondo, a Singapore, per discutere dello sviluppo di nuove tecnologie nel settore pubblico, con particolare attenzione al mercato asiatico. Il Digital Government Transformation Exchange è invece un evento a inviti che riunisce rappresentanti di governo per discutere di temi legali alla governance digitale (nel 2019, ad esempio si è parlato di smart city, a Singapore). Il moltiplicarsi delle occasioni di confronto, la possibilità per gli Esecutivi nazionali di presenziare in più di una di queste strutture, arricchisce il dibattito, ma mina inevitabilmente la durevolezza e l’autorità delle posizioni negoziate.