Piattaforme digitali vs editori: la via australiana alla remunerazione dei contenuti online

Il Parlamento australiano ha recentemente approvato una normativa che obbliga le piattaforme digitali a corrispondere un’equa remunerazione agli editori per la condivisione online di notizie ed altri contenuti informativi. La legge ha suscitato la ferma opposizione delle aziende Big Tech, ed ha inoltre sollevato diversi interrogativi circa l’opportunità e l’efficacia delle misure in essa previste.

 

Lo scorso 25 Febbraio il Parlamento australiano ha approvato un emendamento al News Media and Digital Platforms Mandatory Bargaining Code, che impone alle piattaforme digitali di stipulare dei contratti commerciali con gli editori per la diffusione online di notizie ed altri contenuti giornalistici.

Nelle intenzioni del Governo australiano la modifica normativa sarà in grado di creare le condizioni legali affinché i media siano equamente remunerati per la condivisione dei loro prodotti editoriali, a fronte dei consistenti ricavi pubblicitari conseguiti dalle piattaforme digitali.

L’autorità governativa australiana dovrà individuare con un successivo provvedimento quali piattaforme saranno sottoposte agli obblighi di contrarre. Nella decisione dovrà essere tenuto in considerazione l’eventuale contributo offerto in passato dalle piattaforme alla sostenibilità dell’industria giornalistica australiana.

In caso di fallimento dei negoziati commerciali tra gli editori e le piattaforme, è prevista una forma di arbitrato vincolante attraverso cui saranno fissati i termini del successivo accordo.

L’approvazione dell’emendamento, promosso dal Governo australiano, segue di pochi giorni il blocco temporaneo alla condivisione delle notizie da siti australiani, disposto da Facebook come segnale tangibile del proprio dissenso alla proposta di regolazione. Peraltro, già nei mesi precedenti Facebook aveva minacciato l’adozione di simili contromisure.

Altre piattaforme digitali, come Google, hanno invece anticipato l’entrata in vigore degli obblighi legali, annunciando di aver stipulato diversi accordi con editori australiani, aventi ad oggetto la remunerazione dei loro contenuti.

La legge australiana costituisce il primo esempio di legislazione nazionale ad istituire un sistema di negoziazione obbligatoria tra editori e piattaforme digitali.

L’intento dichiarato del governo australiano è quello di ridurre gli squilibri di potere contrattuale all’interno delle contrattazioni e di fornire quindi un sostegno economico all’editoria nazionale, da tempo in crisi irreversibile di fatturato.

L’ingresso dei social media nel settore dell’informazione ha determinato radicali cambiamenti nel modo attraverso cui si fruisce delle notizie online, con notevoli ricadute in relazione alla garanzia della pluralità e dell’accuratezza dei contenuti informativi.

La legge australiana ha suscitato in molti osservatori diverse perplessità circa l’efficacia delle sue misure e i reali effetti conseguenti alla sua approvazione.

Risulta infatti evidente come, al di là degli specifici obblighi contrattuali, il tema generale sullo sfondo resti quello del ridimensionamento del ruolo pubblico dell’editoria tradizionale, inevitabilmente connesso alla questione riguardante il mutamento degli assetti nel mercato della raccolta pubblicitaria.

Un recente report dell’Australian Competition & Consumer Commission rileva che più dell’80% dei ricavi nel mercato australiano della digital advertising sono riferibili ad un ristretto numero di piattaforme digitali. Situazioni simili si riscontrano in molti altri ordinamenti nazionali, a partire da quello statunitense.

Le piattaforme digitali hanno rimosso e conquistato gran parte dell’oligopolio dei giornali nel settore dell’offerta pubblicitaria, determinando dunque la loro progressiva incapacità di monetizzare al meglio l’offerta dei contenuti editoriali.

Tuttavia, a ben vedere, non si è trattato di una pura e semplice sostituzione, in quanto la maggior parte delle attività pubblicitarie presenti su Internet non avrebbero potuto essere replicate dai media tradizionali.

Per questo motivo, si è obiettato che un’eventuale appropriazione parziale (e forzata) di tali ricavi pubblicitari non sarebbe razionalmente giustificabile da un punto di vista economico.

A questo proposito, taluni sottolineano infatti che i media tradizionali dipendono in proporzione molto di più dalle piattaforme digitali per la propria sopravvivenza finanziaria che non il contrario.

Altri, invece, hanno evidenziato la circostanza che gli obblighi di negoziazione riguardano non solo l’utilizzo o alla ripubblicazione di notizie, ma anche la mera possibilità di far ricorso a link ipertestuali all’interno delle piattaforme.

Tale aspetto potrebbe infatti compromettere il principio fondamentale di libertà nell’utilizzo degli indirizzi web, su cui si è basato il funzionamento di Internet sin dalla sua creazione.

L’approvazione del codice australiano è il risultato di un compromesso politico, sopraggiunto in extremis tra il Governo e le maggiori piattaforme digitali. Come ogni compromesso, si presta pertanto ad una duplice valutazione.

Da un lato, il Governo australiano può rivendicare il ‘merito’ di aver finalmente imposto degli obblighi a contenuto commerciale alle aziende Big Tech, seppur in forma più attenuata rispetto agli originari propositi. Dall’altro lato, le piattaforme digitali hanno ottenuto il riconoscimento di alcune proprie istanze.

Come precisato, la sottoposizione delle piattaforme digitali agli obblighi di negoziazione non sarà automatica, ma piuttosto subordinata ad una verifica circa l’esistenza di un ‘contributo significativo’ per l’industria editoriale.

È quindi verosimile che nella futura valutazione governativa possano rientrare anche considerazioni di opportunità politica, considerata la capacità delle piattaforme digitali di far leva sul malcontento generale attraverso limitazioni o interruzioni dei propri servizi.

Anche la clausola di non discriminazione contenuta in origine nel progetto di legge, che impone alle piattaforme un’equità di trattamento tra tutti gli editori nelle negoziazioni commerciali, appare depotenziata nella sua versione definitiva, consentendo ora la conclusione di accordi economici qualitativamente molto diversi tra di loro.

Ma vi è di più: le piattaforme potrebbero decidere di inibire la condivisione dei contenuti editoriali provenienti da alcune testate giornalistiche, evitando in tal modo di essere sottoposte agli obblighi legali, aggirando di fatto le intenzioni della stessa legge.

La minaccia di una sospensione selettiva dei contenuti potrebbe avere perciò un peso considerevole nelle future contrattazioni, specie con le imprese editrici locali o minori.

Ma ciò che è più grave è la possibilità che tali piattaforme possano decidere di non rendere disponibili determinati contenuti editoriali, con evidenti e significative ripercussioni sulla libertà di informazione degli utenti.

La legge australiana, seppur animata dal meritorio intento di sostenere l’editoria nazionale, non sembra affrontare con efficacia le attuali sfide del mercato dell’informazione. Tale normativa appare piuttosto incentivare involontariamente alcuni comportamenti distorsivi da parte delle piattaforme digitali.

A ciò deve aggiungersi che nessuna delle misure adottate sembra perseguire in realtà l’obiettivo di tutelare il diritto all’informazione degli utenti, attraverso l’adozione di misure che possano realmente garantire il pluralismo, la correttezza e la completezza delle notizie online.

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