Mai più, per favore, un “click day”

Non c’è grande differenza tra il cittadino del 1839 e quello del 2020 – non, almeno, quando si tratta di burocrazia. Il primo vive un’epoca in cui i procedimenti amministrativi, lunghi e incerti, non offrono garanzia né sui tempi dell’istruttoria né sugli esiti. Il secondo? Anche. Eppure sono trascorsi quasi duecento anni. Nel 2020 è tutto più veloce. La diffusione capillare, e pervasiva, delle tecnologie digitali nella vita di un numero crescente di individui ha trasformato la percezione del tempo. In pochi minuti, e con poche azioni, attraverso un computer, è possibile compiere azioni che, in passato, richiedevano tempo ed energie molto maggiori. Le pubbliche amministrazioni però commettono ancora errori marchiani, complicando – anziché semplificare – la vita dei cittadini. Perché? Oltre ai problemi noti – carenza di competenze, infrastrutture digitali inadeguate, gravi approssimazioni nella gestione dei processi, falle nella sicurezza – persiste un fondamentale disallineamento tra le preferenze dell’utenza e quelle delle amministrazioni. Accade cosi che un ‘click day’, metafora di semplificazione digitale, si tramuti in una grottesca odissea telematica. 

 

 

Immaginiamo di viaggiare nel tempo, tornando al 3 Ottobre dell’anno 1839. Ci troviamo a Portici, sono circa le undici del mattino. Stiamo per assistere a un evento storico. È in partenza il primo convoglio ferroviario della penisola italiana. Dopo essere saliti, al seguito di Re Ferdinando II, percorriamo in treno circa sette chilometri e mezzo, giungendo dieci minuti più tardi a destinazione: Napoli. All’uomo del tempo, la ferrovia doveva apparire come la più avanzata delle tecnologie – e per molti versi lo era. Assieme al telegrafo, la ferrovia avrebbe segnato una tappa fondamentale nel progresso umano: l’abbattimento dei tempi di percorrenza delle persone, delle merci e soprattutto delle informazioni (ne ho parlato QUI). Recarsi da Parigi a Roma, al tempo, richiedeva tre mesi di marcia, a ritmo sostenuto. Poco meno per i pochi che avevano la possibilità di spostarsi a cavallo o in carrozza. Così erano anche i rapporti con la burocrazia statale. Lunghi e incerti, i procedimenti amministrativi non offrivano alcuna garanzia sui tempi dell’istruttoria e sulla comunicazione degli esiti all’interessato.

Torniamo al 2020. È tutto più veloce. Molto più veloce. La diffusione capillare, e pervasiva, delle tecnologie digitali nella vita di un numero crescente di individui – unitamente al processo di crescita esponenziale del progresso tecnologico – hanno trasformato la percezione del tempo. Impieghiamo mediamente cinque secondi per leggere un post su Facebook, mentre ne occorrono poco più del doppio per scriverne uno. Questo, a sua volta, si propagherà in pochi minuti attraverso la nostra cerchia di conoscenti – nell’ordine delle centinaia o delle migliaia, in tutto il mondo. Nel 2020 molte delle azioni quotidiane possono essere svolte attraverso il telefono cellulare. Programmare un viaggio, ad esempio. Dal 2018, oltre l’80% delle prenotazioni in tutto il mondo hanno luogo online, attraverso un computer o uno smartphone, e si concludono mediamente in 45 minuti.

Questo cambiamento nella percezione collettiva e individuale del tempo ha generato ulteriori effetti, spesso importanti. Ad esempio si è ridotta considerevolmente la soglia di tolleranza al ritardo. La tecnologia digitale, di fatto, ha generato nuove aree di potenziale insoddisfazione. Queste vengono alla luce nel momento in cui gli effetti di azioni individuali richiedono tempi superiori alle aspettative di chi agisce. Tra le aree di (se non nuova, quantomeno rinnovata) insoddisfazione c’è sicuramente la burocrazia.

Ricordiamo tutti la gestione disastrosa, da parte dell’INPS, dell’erogazione del bonus a sostegno dei lavoratori autonomi ad aprile. Sito andato ripetutamente in crash, sovrapposizione tra gli utenti, diffusione di dati personali. Un’esperienza da dimenticare e, purtroppo, non isolata. Il cd. ‘Decreto rilancio’, approvato dal governo italiano nel maggio 2020, ha previsto la possibilità di riscuotere un bonus pari al 60% delle spese sostenute per l’acquisto di una bicicletta, e-bike, monopattino o altri servizi a mobilità condivisa diversi dal car sharing. Per riscuotere il bonus o richiedere il voucher, gli utenti hanno atteso sei mesi. Giunto finalmente il ‘click-day’, si sono collegati al sito web del Ministero dell’Ambiente. Non tutti, in realtà. Alcuni malcapitati, infatti, sono finiti su un sito farlocco – bonusmobilità, con l’accento finale – oscurato solamente in tarda mattinata.

Risolto il problema e raggiunto il sito web corretto, gli utenti hanno inserito le proprie credenziali e sono entrati nella sala virtuale allestita dal Ministero. Qui hanno ricevuto l’assegnazione casuale di un posto in fila. Tutti insieme: coloro che chiedevano il rimborso di una spesa già effettuata, e coloro che invece domandavano l’emissione di un voucher. Per molti, l’attesa si è protratta per ore. Un tempo interminabile, trascorso facendo refresh dello schermo, con relativa ansia da prestazione alimentata da un grafico a torta che mostrava in tempo reale il depauperamento delle risorse disponibili. Arrivato il proprio turno, gli utenti hanno avuto venti minuti per perfezionare la richiesta. Trascorso inutilmente questo termine, log-out forzato e ritorno al punto di partenza.

Molti – probabilmente gli stessi che avevano atteso per ore il proprio turno – hanno dovuto fare i conti con il malfunzionamento di un altro sito: quello di Poste Italiane, adibito alla gestione della SPID, necessaria per validare l’identità digitale, e perfezionare la richiesta. Nota (dolente) a margine: dopo tre tentativi di ingresso andati a vuoto, l’applicazione per cellulari di Poste italiane chiede agli utenti di cambiare username e password. A tal fine invia un link via mail, al quale l’utente deve connettersi per confermare la richiesta, modificare le credenziali, attendere l’invio di un sms contenente un codice numerico, inserire quel codice e affidarsi alla sorte, sperando sia la volta buona.

A guardar bene, il cittadino del 2020 e quello del 1839 non sono poi così diversi quando si tratta di burocrazia. Eppure sono trascorsi quasi duecento anni. Com’è possibile che, in piena esplosione tecnologica, una pubblica amministrazione commetta errori così marchiani, complicando – anziché semplificare – la vita dei cittadini? Oltre ai problemi noti – carenza di competenze, infrastrutture digitali inadeguate, approssimazione nella gestione dei processi, falle nella sicurezza del sistema – c’è un motivo di fondo e riguarda il disallineamento tra preferenze.

Si tratta di questo: nell’ideare e poi gestire un’interazione telematica con gli utenti, la pubblica amministrazione prova a trasformare una situazione attuale (cumulo delle prenotazioni, lunghe file allo sportello, problemi con la documentazione prodotta) in una preferenziale (gestione rapida, attraverso un sito web, e notevole risparmio di risorse, umane e materiali). Il problema è che la preferenza è un concetto flessibile. La pubblica amministrazione gestisce le preferenze avendo a mente i tempi di lavorazione di ciascuna pratica, le risorse umane che possono essere adibite a quelle attività, e ovviamente il tempo necessario per smaltire i carichi di lavoro. Gli utenti no. A loro questi dettagli non interessano. La loro preferenza è orientata a favore di un esito il più rapido e meno invasivo possibile. È talmente netta la distanza tra le preferenze e le attese che l’Agenzia per l’Italia Digitale nelle linee guida di design per i servizi digitali della PA parla di individuazione dei bisogni degli utenti e, per quanto possibile, di ‘personalizzazione’ – ovvero di adattamento alle aspettative di ciascun utente. Parla però anche di opportunità di identificare standard che consentano alla pubblica amministrazione di operare secondo economie di scala: miglior risultato con minor impiego di risorse.

Se non affrontiamo questo problema, il disallineamento si presenterà di nuovo, è solo questione di tempo. Che si tratti di un click day, o di una qualsiasi altra azione in rete, torneranno le critiche feroci alle amministrazioni, giudicate incapaci e inadeguate. Sarà utile, allora, iniziare a mediare tra le aspettative, con una comunicazione più attenta. Primo: perché replicare dinamiche della realtà (la stanza virtuale e la fila) se è possibile organizzare i flussi tra gli utenti in modo diverso? Ormai anche il docente meno avvezzo alla didattica online ha imparato a dividere gli studenti di classi numerose in stanze virtuali per facilitare la discussione. Perché non possono fare ugualmente le PA? Secondo: è utile insistere sulla retorica della PA digitale più semplice e accessibile senza interrogarsi dei problemi strutturali di questa? Una struttura disfunzionale lo è tanto in formato analogico quanto in versione digitale. Terzo, e più importante: perché non provare a migliorare la gestione del tempo? La metafora della rete che riduce, addirittura azzera, i tempi, va usata con cautela. Genera aspettative destinate a rimanere frustrate. La prossima volta, per favore, si organizzi una ‘click week’. Oppure si invoglino gli utenti a impiegare il tempo di attesa per fare qualcosa di costruttivo. Come il sottoscritto, che lo ha usato per scrivere questo post.

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