Informazioni e società: i pericoli della disinformazione in Kenya

L’era dell’informazione globale porta con sé sempre maggiori pericoli per la tenuta delle società civili. Emblematico sul punto quanto accaduto in Kenya dove, secondo una nuova ricerca di due Mozilla Fellow, una serie di attacchi malevoli e coordinati su Twitter stanno minando la tenuta della società keniota. La rilevanza del fenomeno ha spinto Twitter ad assumere provvedimenti su oltre cento account operanti nel paese, su cui ha riscontrato violazioni della sua politica di manipolazione della piattaforma e spam.

La diffusione degli strumenti tecnologici e della rete internet nei paesi in via di sviluppo ha certamente permesso la promozione della democrazia, della liberalizzazione dei mercati e della libertà espressione. La capacità pervasiva del web, però, rischia di promuovere la polarizzazione delle idee, la sorveglianza di massa e la disinformazione (come più volte osservato anche in questo Osservatorio, qui, qui, qui e qui).

Tale fenomeno ha portato alla nascita di organizzazioni volte a sensibilizzare l’opinione pubblica sulla necessità di un uso etico di internet, e ad intervenire per assicurare che questo rimanga una “force for good”, per utilizzare le parole della Mozilla Foundation, autrice della ricerca.

Proprio nell’ambito di simili attività, due ricercatori hanno individuato come una serie di attacchi malevoli e coordinati su Twitter stiano minando la tenuta del Kenya (documento ufficiale, qui).

Nello specifico, lo studio evidenzia come diversi membri della società civile keniota, tra cui giornalisti e giudici, stiano subendo pesanti campagne di disinformazione coordinate. Le attività di disinformazione, infatti, si accaniscono sempre più sui singoli individui, siano essi politici, membri dell’amministrazione o dell’informazione.

Da un punto di vista quantitativo, la ricerca ha individuato almeno undici diverse operazioni di disinformazione composte da oltre 23.000 tweet e con 3.700 account partecipanti (analisi di un periodo complessivo di tre mesi). Si tratta di attività che non hanno coinvolto solo account fake o bot automatici, ma anche profili di noti influencer del paese che promuovono marchi, cause e ideologie politiche senza rivelare che fanno parte di campagne a pagamento.

Lo studio ha collezionato dati attraverso l’analisi degli hashtag utilizzati dagli autori su Twitter con l’aiuto di Twint, Sprinklr e Trendinalia, ma ha anche raccolto interviste di persone fisiche coinvolte nelle operazioni.

Secondo gli autori dello studio, l’obiettivo principale di queste campagne sarebbe influenzare l’opinione pubblica durante le elezioni e le attività politiche (e di protesta) connesse al processo di revisione costituzionale in corso in Kenya, la Building Bridges Initiative.

Dietro le quinte della disinformazione, inoltre, si celerebbe un vero e proprio business redditizio. Secondo le dichiarazioni di alcuni influencer la partecipazione a tali campagne viene retribuita con pagamenti effettuati direttamente a loro tramite apposite piattaforme private di trasferimento del denaro.

Da un punto di vista pratico, il coordinamento di simili iniziative vede la congiunzione di due elementi. Il primo, dato da un massivo utilizzo di un complesso sistema con gruppi Whatsapp per coordinare e sincronizzare tweet e messaggi, con cui gli anonimi organizzatori delle operazioni inviano contenuti, istruzioni e denaro agli utenti fisici coinvolti, i quali spesso “danno in prestito” i propri account. L’attività principale consiste nel twittare utilizzando hashtag predeterminati, così da ottenere una visibilità significativa per determinati temi.

Il secondo elemento è fornito dall’algoritmo di tendenza di Twitter, che spinge ad amplificare queste campagne. Più di due terzi delle operazioni esaminate, infatti, ha raggiunto la sezione trend della piattaforma, con l’inserimento anche di annunci pubblicitari connessi all’argomento.

Nonostante il lungo silenzio serbato dalle piattaforme social sul tema, la divulgazione della ricerca in analisi sembrerebbe aver sortito qualche effetto (così come in altri casi, come già analizzato qui). La rilevanza del fenomeno ha infatti spinto Twitter ad assumere provvedimenti su oltre cento account operanti nel paese, su cui ha riscontrato violazioni della sua politica di manipolazione della piattaforma e spam. Questo non solo per ragioni etiche e di reputation, ma anche di abbandono del social. Non pochi attivisti, infatti, reputano Twitter “avvelenato” da troll e fake account al punto da rendere complesso un sano dibattito, e da spingerli ad affidarsi ad altri strumenti.

Si tratta di misure, comunque, che rischiano di rivelarsi troppo timide (visto il largo numero di account che sembrerebbero coinvolti dallo studio) e in ritardo, non potendosi calcolare i danni al corretto processo democratico prodotti nei lunghi periodi di inerzia.

Si tratta di pericoli che, ben lungi dall’essere esclusiva pertinenza dei paesi in via di sviluppo, rischiano di minare le basi anche degli stati più sviluppati, come i recenti rapporti dell’intelligence italiana hanno più volte evidenziato (per approfondire qui e qui).

Sempre maggiore attenzione, dunque, dovrà essere prestata da tutte le componenti della società, per assicurare la tenuta dei nostri sistemi democratici.

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