Lussu e il compagno Gengis Khan: partiti poco democratici

Mitica figura dell’antifascismo italiano, Emilio Lussu, dopo essere stato eletto giovanissimo alla Camera (nel 1924, nella lista del Partito sardo d’Azione) e, poi, dopo  la condanna al confino di polizia, la rocambolesca fuga da Lipari con Carlo Rosselli, la partecipazione a Giustizia e Libertà, la resistenza armata ai tedeschi a Porta San Paolo a Roma, e l’adesione al Partito d’Azione, fu – per il tramite del piccolo Partito sardo d’azione socialista da lui stesso fondato e confluito nel Psi – un militante di punta di quel partito, nel quale fu eletto senatore dal 1948 al 1964, quando avrebbe aderito alla scissione dalla quale nacque il Psiup.

In questo intervento del 1957, pubblicato sul mensile socialista “Mondo Operaio”, egli affronta il tema della democrazia interna dei partiti, sul presupposto – scrive – che “un Partito, verso il suo esterno, può attuare il metodo democratico in quanto esso stesso attui il metodo democratico al suo interno, nell’organizzazione di ogni sua istanza”. E aggiunge: “La democrazia in Italia altro non è che il prodotto della democrazia all’interno dei suoi partiti politici”.

Nel racconto di un episodio personale forse poco rilevante, Lussu esemplifica però da par suo  il senso di una riflessione cruciale, difendendo la collegialità delle scelte politiche e insistendo sul pericolo rappresentato da una gestione dall’alto del partito.

Durante una campagna elettorale, nell’ufficio del Segretario della Federazione X, ho assistito a questa scena: il Segretario, che non avevo conosciuto prima di allora, stava seduto al suo tavolo, col microfono alla mano. Attorno, un po’ distanti, un cerchio di compagni: collaboratori improvvisati per quella campagna e Segretari di Sezione venuti per portare e avere notizie e per ricevere direttive. Il Segretario, con cipiglio severo, si rivolgeva ora all’uno, ora all’altro e dava ordini. S’interrompeva per chiamare qualcuno al telefono e dava sempre ordini. E parlando, s’ascoltava, soddisfatto di se stesso. Sembrava un generale che preparasse una battaglia. Finita la telefonata qualcuno gli rivolse un’obiezione di palese carattere critico ed egli rispose perentorio: “Sta zitto! Non accetto provocazioni!”.

Finalmente il generale mi degnò di uno sguardo. Egli mi aveva visto entrare, ma gli era sembrato degno della sua importanza far finta di non avermi notato, per quanto io fossi atteso, e per l’età potessi essere suo padre o addirittura suo nonno. “Se fossi nato nel deserto del Gobi – gli dissi canzonatorio – tu faresti la carriera di Gengis Khan”. Egli si sentì toccato dal riferimento all’Asia e mi rispose, con un certo imbarazzo, che senza tali metodi la Federazione non avrebbe vinto le elezioni. Naturalmente le perse.

Era evidentemente un compagno cui mancava la formazione democratica.

Emilio Lussu, Democrazia interna del Partito, in “Mondo Operaio”, a. X, n. s. , n. 1, gennaio 1957, p. 22.