Lo spettro che si aggira per l’Italia: l’abuso dei decreti legge

La polemica contro i decreti legge, rari nell’esperienza ante-1915 ma poi abusati sino all’eccesso nel triennio della prima guerra mondiale, attraversa tutta la storia dell’Italia del primo dopoguerra. Il fascismo si propone di vietarne drasticamente l’uso: sarà costretto a tradurne in legge una enorme stock ereditato dal periodo bellico e poi dovrà constatare che i suoi stessi ministero ne producono moltissimi, incuranti delle continue circolari della Presidenza del consiglio.

Di nuovo in numero limitati nel secondo dopoguerra, riprenderanno in quantità negli anni di fine secolo, sino a diventare una forma non più eccezionale ma normale di decisione governativa nella prassi più recente. I motivi di questa vitalità del decreto legge sono tanti: la lentezza dei meccanismi stessi della legislazione tramite Parlamento, la possibilità in sede di conversione di aggiungere nuovi articoli senza che su di essi si possa esercitare l’adeguato controllo, l’opportunità offerta ai governi di tagliar corto sui contenuti ottenendone una istantanea applicazione.

Di seguito Luigi Einaudi (nel 1925) si esprime con forza contro i decreti legge, con espliciti riferimenti alla tradizione giuridica anglosassone.

 

Vano (…) è lo spettro che si agita in Italia: che lo stato non possa più funzionare se il governo è privo del potere, nei casi estremi, di far decreti aventi vigore di legge. Lo Stato vive, forte e rispettato, laddove al governo tale diritto è assolutamente interdetto.

Ed il rispetto alla legge giunge negli Stati uniti a tanto che le corti supreme di giustizia possono dire: «anche il parlamento si è sbagliato. La sua legge è nulla, perché contraria ai principii supremi di giustizia, di cui io, corte giudiziaria, sono l’interprete». Il che vuol dire semplicemente non che si misconoscano i diritti del parlamento; ma che la consuetudine, creatrice di legge, ha affermato che a far leggi non bastano due camere, ma ne occorrono tre: la camera dei rappresentanti, il senato e l’alta corte di giustizia, composta di pochi uomini, inamovibili finché ad essi piaccia di rimanere in carica, senza limiti d’età, indipendenti dalle passioni di popolo e dalle pressioni di governo.

Le tradizioni europee ed italiane impediscono di imitare questo sistema tricamerale, radicato nella storia locale, e nelle tradizioni giuridiche anglo-sassoni. Ma si cessi almeno di sostenere che la legge è un metodo antiquato di legiferare. È invece il solo che tuteli gli interessi collettivi, che non sacrifichi gli interessi permanenti alle passioni momentanee. Nonché legalizzare i decreti leggi, ossia autorizzare il governo a fare leggi senza previa pubblica discussione, importa moltiplicare i freni a far leggi improvvisate; rendere severa la guarentigia di una discussione approfondita.

Con altri mezzi, ossia col ristabilire in pieno l’autorità del parlamento, occorre raggiungere l’effetto a cui negli Stati uniti si intende coll’intervento dell’alta corte: rendere impossibile che entri in vigore una legge la quale, dopo aperto dibattito, non sia dalla coscienza pubblica, accettata come legge giusta.

 

Luigi Einaudi, Decreti e leggi, ora in Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VIII, Torino, Einaudi, 1965, pp. 213-214.