Le disavventure di Policarpo de Tappetti, incauto padre e scrivano nel Fondo per il Culto

“Policarpo De-Tappetti, incauto padre e scrivano presso il Fondo per il culto, ha promesso al figlio Agenore, sei anni e quattro mesi, di condurlo al Macao”.

Comincia così, con questa frase, la divertente rappresentazione de La Famiglia De-Tappetti, uno dei classici della satira sulla burocrazia del primo Novecento. Il libro, firmato “Gandolin”, pseudonimo dell’umorista Luigi A. Vassallo, alla sua prima pubblicazione nel 1903 piacque molto. Metteva in scena, in forma di commedia ridicola, le disavventure quotidiane di un piccolo burocrate nella Roma fin-de-siècle.

Ma forse rappresentava anche qualcosa di più. Ciò che vi si legge tra le righe, a guardarvi oltre le comiche peripezie del povero De-Tappetti eternamente alle prese con l’agitata vita domestica (a cominciare dall’ansia di arrivare al 27 del mese), è infatti un piccolo-grande dramma che dovette affliggere tutta la parte più bassa della piramide burocratica dell’epoca: la scissione cioè tra quel sistema di valori ingenuamente patriottici nei quali il povero scrivano era stato educato e nei quali si identificava (le glorie dell’Italia unita), e le miserie quotidiane che gli opponeva ad ogni passo la realtà quotidiana.

Ecco dunque la sua povera casa, due camere e cucina in un palazzo fatiscente e umido; ecco l’arredamento pretenzioso ma al tempo stesso squallidamente misero; ecco lo striminzito stipendio di 95 lire al mese, dei quali 45 se ne vanno solo per la pigione. E i debiti perenni col fornaio e col salumiere. E le umiliazioni di tutti i giorni nel quartiere e in ufficio. Il che però non toglie che Policarpo immedesimato orgogliosamente nel suo ruolo di impiegato statale creda fermamente nel suo status privilegiato, quasi che quel lavoro da scrivano fosse una sacra missione da onorare con abnegazione alla stessa stregua degli eroici soldati caduti sui campi di battaglia del Risorgimento. Lo tradisce il suo linguaggio aulico (che Gandolin mette volutamente in ridicolo), la distanza siderale che lo separa dalla realtà, quel suo immedesimarsi senza esitazione alcuna nel ruolo che lo Stato gli ha assegnato.

Come nel brano seguente, fedele resoconto della visita domenicale al Palazzo dell’Esposizione nel quale Policarpo fa da Cicerone al figlioletto Agenore per introdurlo ai fasti della Patria. Al portiere che gli domanda il biglietto di entrata Policarpo, certo del suo diritto di servitore dello Stato, contrappone un fiume di paroloni, che quello però visibilmente non capisce. Infne gli viene posta la domanda finale:

  • Ma lei allora chi rappresenta?

E Policarpo accigliato e solenne:

  • Rappresento l’amore della famiglia, l’ordine, il progresso, la moralità!
  • Ho capito! Quand’è così paghi una lira, si provveda di biglietto e vada dalla parte di via Nazionale!

(…)

Tutto si trova a questo mondo e Policarpo De-Tappetti, finalmente, trova la porta per cui si entra. Ma proprio al momento in cui sta per introdurre il proprio individuo in quella invenzione di Procuste ch’è il contatore, un portinaio gli dice:

  • Se vuole entrare, entri pure, ma l’avverto che tra sei minuti si chiude l’esposizione.
  • Figlio mio – esclama Policarpo sbigottito: – sulle pratiche emarginate del destino era scritto che noi non dovessimo entrare in questo santuario dell’arte. Vieni: torniamo alle tranquille ma nutritive gioie domestiche.

Gandolin, La Famiglia De-Tappetti, Torino, Streglio, 1903, ma qui si cita l’ed. Milano, Garzanti, 1941, pp. 118-119.