La doppia vita di Nyta Jasmar, telegrafista di giorno, sofisticata figlia del secolo la notte

Nyta Jasmar è l’esotico pseudonimo di Clotilde Scanabissi Samaritani, impiegata telegrafica a Budrio, nata nel 1873, che nel 1913 pubblicò un singolare romanzo, Ricordi di una telegrafista. L’ambientazione era quella di un ufficio del telegrafo qualunque in una città qualunque. Ma poi Jasmar vi raccontava, nei modi del dannunzianesimo imperante, «la doppia vita di una donna: di giorno ausiliaria telegrafica, vestita del rozzo camice di lavoratrice tecnica, che si muove in ambienti umidi e maleodoranti fra le colleghe che trasudano miseria e stanchezza, di notte sofisticata figlia del secolo, avvolta in morbide, fini vestaglie o in prestigioso peignoir, tutta raccolta in fantasie erotico-estetizzanti nel suo pied-à-terre» (così Giulio Ungarelli, lo «scopritore» di questa sconosciuta scrittrice, nella introduzione alla edizione einaudiana del libro). Non propriamente un romanzo autobiografico, dunque. Ma tuttavia – in alcune pagine – una testimonianza diretta dello sfruttamento del lavoro femminile: sottopagate, assoggettate a turni massacranti, espulse dal posto se sposate o quando troppo anziane (o se sospette di essere in attesa di un bambino: Filippo Turati fece da deputato una memorabile battaglia in Parlamento per rimuovere questa norma assurda e discriminante).

 

Lo spogliatoio del mio ufficio continua a farmi un effetto teatrale (dietro le quinte), tutte quelle braccia e spalle che si scoprono… le ciprie, le catenelle, le perline… quei movimenti d’abiti e di vestaglie. Offre un campo all’osservatore… C’è chi indugia, chi s’affretta, chi… se ne infischia. Chi indugia …appartiene al corpo battagliero… e combatte… con la femminilità o con l’astuzia, con l’ardimento, colla doppiezza. Sono belloccie…il resto viene da sé! Chi s’affretta, ha l’ossario spolpato da coprire od ha rinunciato ad una palestra, sia per indole o per necessità. Chi se ne infischia pensa solo al ventisette e sono le veterane, quasi tutte le veterane, alle quali la giovinezza sfiorì innanzi tempo: vittime del lavoro, sono le oscure eroine…Hanno i capelli bianchi e mi fa pena vederle ancora curve sugli apparati. Le battagliere si agitano, fermentano come l’uva, nel tino. Oggi ho vicina una piccola battagliera, un po’ maligna, Rita Follini. Sento come un ronzio continuo di calabrone intorno ai fiori. Non tace un secondo! Quel suo corpicciuolo pare un fusto d’avellano: più foglie e più fronde che tronco. Ella non si confonde nel frastuono del lavoro; abbiamo vicine due Hughes attive che sembrano due gramole quanto schiantano e frantumano la canapa, poi il martellio dei tasti Morse e delle ancorette. È un baccano indiavolato d’un popolo misterioso che si nasconde nelle viscere degli apparati. (…).

Eppure qual materia di studio, quale strana situazione è la nostra sia rispetto al pubblico, come verso i superiori e tra noi stessi!! E quanti segreti passano tra le nostre mani! Noi abbiamo giurato il segreto sulla corrispondenza – giurato fedeltà al Re ed alla Patria, come i soldati, di cui abbiamo la disciplina più che ferrea. – E quel parlare lontano coll’invisibile e tutta quella elettricità che vi passa nel sangue, quel combattere per apparato con un altro impiegato lontano chilometri e chilometri, al quale se non si va d’accordo non si può dire più di un interrogativo pena qualche guaio…tutto quel movimento di commercio, di affetti, che passa per le nostre mani… Le idee, i pensieri, gli interessi di tutti… Costretti a tacere anche se vi andasse il nostro utile, od il nostro cuore. Non è una strana situazione? Così penso talvolta mentre ferve il lavoro e do una occhiata sommaria a tutte quelle teste curve. Guardando le colleghe mi sento commossa e intenerita. Vi sono delle lavoratrici formidabili che hanno vinto l’uomo, delle battagliere vere diplomatiche, capaci di reggere il governo…Delle oscure martiri che sciupano la loro vita tutto il giorno nel lavoro straordinario pur di sopperire ai bisogni delle famigliuole ereditate… E v’è chi trova nel lavoro un continuo campo di guerra; v’è chi ride, v’è chi piange…e chissà! Tutte avranno il loro romanzo…più o meno triste!

Nyta Jasmar, Ricordi di una telegrafista, nota introduttiva di G. Ungarelli, Torino, Einaudi, 1975, pp. 21, 43-44.