La burocrazia che produce il topolino

Cessato nel 1924 dalla sua funzione di ministro delle Finanze, il riformatore dell’amministrazione nel periodo del primo fascismo, Alberto De Stefani (economista di scuola liberista), assunse sul “Corriere della sera” quella stessa funzione di editorialista che era stata propria prima della dittatura del liberale Luigi Einaudi. Contemporaneamente egli mutava in parte le sue idee sull’amministrazione, distaccandosi forse (pur senza mai smentirle espressamente) dalle posizioni (e conseguenti decisioni) assunte come ministro. In quel periodo, nel 1929, avrebbe presieduto un poco fortunato Comitato per la riforma dei metodi di lavoro dell’amministrazione, il cui rapporto finale (dal taglio semplificatore e blandamente antiburocratico) non sarebbe stato tenuto in nessun conto dal duce (Una riforma al rogo è il titolo del libro del 1950 nel quale De Stefani, a cose fatte, ripercorre quell’esperienza). Il brano che qui si propone è tratto però da un articolo pubblicato nel giugno 1928 sul “Corriere della sera” e anticipa alcune considerazioni che poi confluiranno nelle inattuate proposte dell’anno successivo. Vi figurano due temi cruciali: come si forma un buon funzionario e come si può semplificare l’amministrazione. Anche – sostiene De Stefani quasi criticando il sé stesso ministro riformatore – riducendo i troppi gradi intermedi della gerarchia burocratica.

Molta statistica, molta storia, molto diritto, molta scienza economica. Ma anche quando tutti questi molti si sieno concentrati in un individuo non può dirsi e non può credersi di averne fatto un organizzatore. Forse la sua dottrina si trasformerà in pregiudizi, forse egli trasporterà, o vorrà trasportare, gli schemi degli argomentatori nella pratica degli uffici. E ci farà perdere il tempo a tutti, e creerà degli istituti non necessari, e porrà dei limiti dove prima si poteva andare, e moltiplicherà le ipotesi sui danni eventuali che la nostra azione può produrre al prossimo nostro, ed esigerà garanzie per ognuna di queste ipotesi e trasformerà gli affari buoni in cattivi e spesso, senza accorgersene, i cattivi in buoni. Questo amore dei dibattito, che l’argomentare scolastico gli ha inoculato, gli fa amare le deliberazioni collegiali perché danno luogo a discussioni e perché ne saziano, in tal modo, la sete. E così i decreti del Governo, nati da un proposito semplice, diventano un groviglio tra il sì e il no, tra il lecito e l’illecito, una dosatura di competenze. Cosicché se a uno di noi capita di dover agire, per ordine dello stesso Governo, le Sette Pazienze sono una cosa da nulla in confronto a quelle che ha da sopportare. Vi sono atti ragionevoli, innocui, da sbrigarsi alla svelta, che esigono l’intervento di quattro o cinque Ministeri. Ci si mettono tutti per produrre il topolino, Dove basterebbe una telefonata nasce “l’incartamento”; e l’attimo diventa mese e il mese diventa anno. La stessa struttura gerarchica è, per i troppi gradi intermedi, favorevole a queste dispersioni. Ognuno vuol metterci del suo.

Alberto De’ Stefani, L’organizzazione dello Stato, in “Corriere della sera”, 19 giugno 1928 (poi in Id., L’oro e l’aratro, Milano, Fratelli Treves Editori, 1929, pp. 160-161).