Impiegati a Milano in un interno burocratico: l’ufficio, porto quieto di Demetrio Pianelli

Nel Demetrio Pianelli di Emilio De Marchi, romanzo del 1890, appare chiaro il significato delle virtù nascoste, come la regolarità e la precisione, la puntualità e la diligenza, nella cultura del buon impiegato ottocentesco. La prevedibilità, la successione quotidiana dei gesti, il «cerimoniale» quotidiano dell’entrata in ufficio (un rituale che ricorda il sacerdote che dice la messa) si contrappongono alla sregolatezza e al clamore del mondo esterno, a quella vita reale che invaderà presto l’esistenza «separata» di Demetrio sconvolgendola per sempre (sarà suo malgrado trascinato nelle vicende familiari della bella e giovane cognata rimasta vedova e dei figlioli del fratello suicida).

La sua sicurezza di copista («quell’abilità automatica, che acquista la mano di chi scrive molto, che sa andare da sé e quasi ragionare da sé anche quando il cervello è assente», scrive De Marchi) corrisponde all’ordine dell’ufficio: le scrivanie disposte a seconda della gerarchia, l’una centrale – quella del capo ufficio –, l’altra di lato – quella del copista; gli oggetti e i mobili distribuiti mai casualmente negli spazi; la ripetitività dei gesti del lavoro burocratico; la calma e il silenzio che regnano sovrani nel piccolo mondo conchiuso.

Demetrio giunse in ufficio con qualche minuto di ritardo, un’ora prima del suo capo, il cavaliere Balzalotti. Arrivato al suo posto, che era un tavolo accanto a una finestra, difeso contro i colpi d’aria da un vecchio e logoro paravento, tolse prima di tutto il sigaro di tasca, lo guardò alla luce se c’era tutto e lo collocò come una preziosa reliquia sopra lo sporto della finestra.

Aprì il cassetto e controllò i due panini nel cartoccio. Fece una rapida ispezione al suo cappello rotondo, vi picchiò su con un buffetto per ispazzare via un filo di polvere, lo tuffò delicatamente in una custodia di carta fatta apposta e lo collocò nella sua vestina sull’ometto. Poi aprì un altro cassetto e trasse fuori le due manichette di tela lucida ch’egli metteva per scrivere. Se le infilò: diede una nervosa e rapida fregatina alle mani, chiudendo gli occhi, accartocciando tutte le rughe della faccia. Poi cominciò la diligente pulizia degli occhiali,

(…)

Il tavolone del cavaliere, pieno di carte e di allegati, era posto nel mezzo della parete, sotto un bel ritratto del re, tra due campanelli elettrici, poco lontano dalla bocca del calorifero.

Il Pianelli, uomo paziente, discreto, di poche parole, era come se non ci fosse. Copiava, ricopiava, scriveva sotto dettatura con una calligrafia grossa e precisa, senza fare tante questioni di lingua e di grammatica, come pretendono certi chiacchierini saputelli che, per essere stati bocciati alla quarta ginnasiale, credono di saperne di più dei loro superiori.

Emilio De Marchi, Demetri Pianelli, Milano, Mondadori, 1960, pp. 90-91.