Le funzioni amministrative digitali. Intervista a Stefano Rossa

 

Bruno Carotti, coordinatore dell’Osservatorio, pone alcune domande a Stefano Rossa, ricercatore all’Università del Piemonte Orientale, in merito al suo volume Contributo allo studio delle funzioni amministrative digitali. Il processo di digitalizzazione della pubblica amministrazione e il ruolo dei dati aperti”, Milano, 2021. Il tema dell’analisi dei dati non è solo di grande attualità, ma costituisce un’occasione di approfondimento e riflessione, compiendo un passo ulteriore verso le ricostruzioni teoriche delle funzioni amministrative.

 

1. La funzione amministrativa appare, unitamente al concetto di digitalizzazione, il sostrato teorico del volume. Può spiegare la Sua lettura?

Il punto di partenza dello studio è stato ricostruire una definizione univoca, valevole sul piano giuridico, del concetto di digitalizzazione della pubblica amministrazione. Questo aspetto è risultato essere imprescindibile in considerazione del fatto che tale concetto, generalmente, è ritenuto in qualche modo scontato e ovvio, risultando quindi superflua una sua precisa definizione. In realtà, per studiare la digitalizzazione è innanzitutto necessario avere ben chiaro che cosa essa sia, soprattutto se l’intento è analizzarlo sul piano tecnico: l’impiego di concetti opachi, non chiari, rischia infatti di portare alla formulazione di riflessioni scientifiche instabili.
Ho proceduto, pertanto, a suggerire una sua possibile definizione giuridica, arrivando a delineare la digitalizzazione della pa come un processo esecutivo e organizzativo, che consta di due momenti. Da un lato, la pubblica amministrazione si organizza per esercitare, mediante le tecnologie digitali (ICT), funzioni amministrative preesistenti, al fine di attuare i principi che ne governano l’attività (in particolare quelli di imparzialità e buon andamento, e dei relativi corollari di efficacia, efficienza, economicità). Grazie alle moderne tecnologie, la pa può cercare di esercitare in modo più efficiente funzioni amministrative conosciute: l’introduzione di sistemi e strumenti informatici porta, per, a individuare “funzioni amministrative digitalizzate”. Dall’altro lato, l’amministrazione si organizza per esercitare, con le ICT, funzioni amministrative nuove, non preesistenti: mi riferisco, in particolare, alla declinazione dei principi della strategia dell’Open Government (trasparenza, partecipazione e collaborazione).
Esercitando funzioni innovative, l’Amministrazione, rese possibili dall’impiego delle tecnologie digitali, si formano “funzioni amministrative native digitali”, di cui un esempio può essere rappresentato dall’Open Data Analysis pubblica. Si tratta dell’esercizio, a mio giudizio, di una vera e propria funzione amministrativa, che prevede l’analisi, la gestione, la fruibilità e la conservazione dei dati aperti (Open Data). Questi ultimi, infatti, nascendo grazie alle ICT, contribuiscono all’attuazione dei principi di trasparenza, partecipazione e collaborazione. La digitalizzazione, in sostanza, non consente soltanto di fare meglio qualcosa che si è sempre fatto, ma di compiere anche qualcosa di nuovo. E questo vale anche per l’esercizio di funzioni amministrative.

 

2. La letteratura, però, mette in guardia dal fatto che più che adattare i procedimenti alle nuove tecnologie, queste ultime sono state piegate alle vecchie esigenze (gli studiosi più avveduti lo fanno da almeno quattro decenni). Mi pare una delle maggiori obiezioni al modo in cui le tecnologie sono utilizzate dalla pa italiana ed è un problema storico e culturale. Cosa ne pensa?

Il problema è reale e riflette un approccio alla tecnologia diffuso nella pubblica amministrazione, frutto di più fattori che tendono a sommarsi fra loro e che coinvolgono tanto l’azione quanto l’organizzazione amministrativa: si pensi, ad esempio, al basso livello di cultura digitale (dei cittadini e) dei dipendenti pubblici (su cui infra); alla mancanza di approccio al rischio da parte della pubblica amministrazione; alla presenza di fenomeni ascrivibili alla c.d. burocrazia difensiva; nonché all’impiego di modelli organizzativi tradizionali, caratterizzati da rigidità. Adattare la tecnologia ai procedimenti e alle vecchie esigenze non è necessariamente scorretto, ma appare limitante soprattutto in una prospettiva di medio-lungo periodo. Affinché si possa giungere a una digitalizzazione piena, a questo profilo si deve affiancare quello nel quale sono i procedimenti e le “nuove” esigenze a doversi adattare alla tecnologia. Un percorso irto e tortuoso ma, in ogni caso, inevitabile.

 

3. La capacità analitica è un tema generale. Perché definisce la funzione di analisi degli Open Data una funzione “nativa digitale” mentre quella di analisi dei Big Data una funzione “digitalizzata”? Che cosa le distingue sul piano concettuale?

Esattamente come i soggetti privati, anche la pubblica amministrazione necessita di raccogliere i dati relativi allo stato di fatto esterno, alla realtà nella quale essa si trova ad agire. Che l’attività conoscitiva dell’amministrazione sia legata all’acquisizione di fatti necessari all’istruttoria procedimentale, disciplinata in senso ampio dalla legge n. 241 del 1990, è circostanza nota. Più di vent’anni prima della promulgazione di questa fondamentale legge, il tema fu oggetto di un approfondito studio (avveniristico, per l’epoca) condotto da Franco Levi. Nell’opera monografica L’attività conoscitiva della Pubblica Amministrazione (Giappichelli, Torino, 1967), Levi sostenne la tesi secondo cui, per giungere alla formalizzazione del proprio agire, tramite l’emanazione del provvedimento, l’Amministrazione dovesse innanzitutto realizzare un iter procedimentale fondato su una previa attività conoscitiva. In questo senso, esercitava una funzione amministrativa a sè. L’impiego delle tecnologie digitali ha giocoforza inciso sulla funzione conoscitiva, trasformando un processo statico, basato sui documenti cartacei e sulla loro conservazione materiale, in uno di tipo dinamico, grazie alla conservazione e alla fruizione digitale dei dati.
L’impiego dei dati produce effetti positivi importanti, soprattutto se considerati in forma aggregata e massiva, ossia ricorrendo ai Big Data. La Big Data Analysis si dimostra di estrema utilità, poiché permettono all’amministrazione di esercitare un’attività conoscitiva più approfondita, più accurata e più celere rispetto alle classiche modalità documentali. Ciononostante, questa funzione conoscitiva, potenziata dall’analisi dei Big Data, risulta la stessa che esisteva prima del processo di digitalizzazione (e che già Franco Levi aveva descritto): certamente, è più puntuale e completa, oltre che efficace ed efficiente, ma è sempre la medesima. La Big Data Analysis pubblica, in altri termini, permette alla pubblica amministrazione di intervenire sulla funzione conoscitiva “tradizionale”, orientandola alla concretizzazione dei principi che governano l’attività dell’amministrazione, come visto. Permette di svolgere in modo migliore un compito che ha sempre svolto: di conseguenza, può essere definita una “funzione amministrativa digitalizzata”. Questo fattore si nota in relazione a due strumenti che impiegano questo tipo di analisi di dati: l’Anagrafe Nazionale della Popolazione Residente e l’Anagrafe Nazionale degli Assistiti, che rappresentano una versione digitale di un antico strumento, utilizzato da secoli dalle Istituzioni pubbliche.
L’impiego delle ICT, tuttavia, è in grado di condizionare la funzione conoscitiva anche sotto un ulteriore profilo. La pa può utilizzare le tecnologie digitali per gestire e analizzare i dati (già in suo possesso, o raccolti), rendendoli aperti e mettendoli a disposizione dei terzi, che siano imprese o cittadini, consentendo loro di acquisire conoscenza. In questo modo, l’amministrazione non è più il soggetto verso il quale è diretto il processo conoscitivo, ma ne diventa il mezzo, il tramite grazie a cui viene trasmessa la conoscenza ai soggetti terzi. Appare evidente, dunque, come la funzione amministrativa legata alla gestione e all’analisi dei dati aperti a vantaggio di cittadini e imprese non sia finalizzata a migliorare in punto di efficacia, efficienza ed economicità l’attività conoscitiva “tradizionale” – contrariamente al caso della Big Data Analysis pubblica – ma attuare sul piano concreto i principi di trasparenza, partecipazione e collaborazione alla base della strategia di Open Government. Essendo distinta e differente dalla funzione conoscitiva “tradizionale”, ecco che l’Open Data Analysis pubblica – ovvero la funzione di analisi, gestione, fruibilità e conservazione dei dati aperti – risulta essere una funzione nuova, “innovativa”, resa possibile, tanto sul piano teorico quanto su quello dell’attuazione, proprio dalle tecnologie digitali, senza le quali il concetto stesso di dato aperto non esisterebbe. In questo senso l’Open Data Analysis pubblica costituisce una “funzione amministrativa nativa digitale”.

 

4. Mi inserisco sul tema dei documenti informatici. Colgo dalle Sue parole segnali di ottimismo, ma abbiamo visto, negli anni, quanto il percorso sia lungo, complicato e pieno di ostacoli, anche per una normativa che necessita di una riscrittura seria. Non giudica ancora troppo lento il percorso complessivo? Il formalismo è ancora un freno, nonostante la declamazione di principi come il digital first?

Una delle difficoltà maggiori per il diritto è chiaramente quella di riuscire a stare al passo con i cambiamenti della società, nel caso in esame con l’evoluzione della tecnica. Sotto questo profilo, la disciplina normativa si trova a rincorrere il repentino mutamento della tecnologia e pare condannata a farlo anche in futuro. Prendendo atto di tale condizione “intrinseca”, il legislatore si trova costretto a puntellare periodicamente l’impianto normativo con precisi e specifici interventi, come dimostrato ad esempio dalle numerose modifiche apportate al Codice dell’Amministrazione Digitale, che però molto spesso mostrano limiti sul piano della tecnica redazionale e su quello sistemico, causando attriti interpretativi e frenando la stessa applicazione delle norme. Al contempo, intervenire periodicamente con l’introduzione di un nuovo corpus normativo, che raccolga e organizzi i precedenti interventi spot, più che un intervento sistematico, potrebbe essere visto come un episodio di schizofrenia normativa. Il procedere del legislatore non risulta essere pertanto univoco e deciso, quanto invece incerto: non essendovi un’unica soluzione oggettivamente giusta, esso si pone al centro di ragioni opposte che, singolarmente intese, paiono ciascuna corretta. Tutto ciò, si intende, rallenta inevitabilmente il percorso normativo. Ma proprio a fronte di ciò, il formalismo risulta essere un necessario e imprescindibile baluardo di certezza, in quanto espressione di una ratio di tutela. Il formalismo, però, non deve essere inteso come un ostacolo, un freno, all’innovazione: esso dovrebbe essere invece adattato alle esigenze che derivano dai mutamenti sociali, tecnologia compresa, come accaduto con la firma digitale: il formalismo è rispettato, così come la sua ratio di tutela, ma si è potuto impiegare un nuovo strumento tecnico per garantirlo (tra l’altro, in modo più efficace), anche in attuazione del principio del digital first.

 

5. L’uso dei dati – e la loro configurazione in termini di uso e riuso – sono al centro dell’analisi. Quanto è reale la dimensione amministrativa digitale?

Uno degli innegabili vantaggi della digitalizzazione è l’aver reso disponibile e riutilizzabile un’immensa mole di dati, molti dei quali sono rilasciati in formato aperto, con la conseguenza che chiunque li può scaricare, analizzare e rielaborare anche per fini diversi da quelli per i quali questi dati sono stati prodotti. A fronte della disciplina normativa di settore sugli Open Data – si pensi, ad esempio, alla Direttiva (UE) 2019/1024 – in tale contesto la stessa pa riveste un ruolo fondamentale.
Questo aspetto è emerso in modo plastico durante la pandemia di Covid-19, nella quale il Dipartimento della Protezione Civile ha sviluppato un applicativo per il monitoraggio della situazione nazionale dei contagi da Coronavirus, composto da una piattaforma digitale centralizzata di raccolta dei dati (con funzione di back end) e da un pannello di visualizzazione (con funzione di front end). Tale applicazione, non più disponibile dal 31 dicembre 2022, ha consentito alla Presidenza del Consiglio dei Ministri di offrire ai cittadini un pratico e intuitivo strumento per informarsi sull’andamento della diffusione del virus in Italia. Questo è avvenuto, da un lato, tramite la consultazione con strumenti di data visualisation di dati ufficiali (verificati, attendibili e costantemente aggiornati); dall’altro, grazie alla messa a disposizione di tali dati (e dei relativi metadati) e alla previsione della loro piena accessibilità e riutilizzabilità (nello specifico, con licenza Creative Commons CC BY 4.0, che impone come unica condizione alla condivisione l’attribuzione del soggetto che ha posto in essere il contenuto). Ciò ha offerto la possibilità a soggetti terzi di effettuare rielaborazioni proprie, per sviluppare studi e trend statistici, risultati cruciali in particolare nelle fasi più acute della pandemia.
Vi sono, tuttavia, anche ulteriori esempi concreti di impiego di strumenti di Open Data Analysis pubblica, tanto a livello nazionale, come testimoniato ad esempio dalla Piattaforma Digitale Nazionale Dati (PDND, sviluppata a partire dal Data & Analytics Framework – DAF, così come previsto dall’art. 50-ter d.lgs. n. 82 del 2005, il Codice dell’Amministrazione Digitale), quanto a livello regionale, come testimoniato dal progetto Mèmora della Regione Piemonte, in relazione alla catalogazione e all’archiviazione di contenuti di carattere culturale presenti sul territorio regionale. Gli esempi menzionati sono la dimostrazione dei tentativi che le istituzioni hanno compiuto, e stanno tutt’ora compiendo, per rendere concreto il processo di digitalizzazione, mettendo a disposizione strumenti pratici che consentano di incidere positivamente sulla partecipazione dei cittadini e sulla loro collaborazione con i soggetti pubblici, nonché sul grado di trasparenza dell’azione delle Pubbliche Amministrazioni. Sotto questo punto di vista, in relazione al tema dei dati aperti, pare possa darsi una lettura positiva: del resto, fra tutte le voci considerate dal Digital Economy and Society Index (DESI) 2022, quella in cui l’Italia raggiunge i migliori risultati è proprio relativa agli Open Data, in cui il nostro Paese si colloca ben al di sopra della media europea (cfr. Commissione Europea, DESI 2022, sez. Digital Public Services). È evidente, però, che il tema dei dati aperti è soltanto una delle numerose tessere che compongono il vasto mosaico del processo di digitalizzazione.

 

6. Analisi dottrinali, anche recenti, mostrano come proprio il sistema dei dati aperti sconti arretratezze o, comunque, un impiego non ottimale, soprattutto nel riuso. La cessazione della piattaforma della Protezione Civile (che ricorda esperienze di altri Paesi) sembra, poi, un classico esempio di perdita di strumenti e conoscenze (che invece andrebbero mantenute). Non vede disfunzioni, in questi casi? Quanto incide la politica su queste scelte?

È innegabile che il processo di digitalizzazione pubblica, in particolare a fronte del “peso” – anche finanziario, come messo in luce dal PNRR – di questa materia, sia condizionato da scelte di carattere politico. Un esempio su tutti è rappresentato dal Ministero per l’innovazione tecnologica e la digitalizzazione: istituito senza portafoglio durante il c.d. Governo Conte II, mantenuto durante il Governo Draghi, seppur con una diversa denominazione, ma venuto meno con l’attuale Governo Meloni, il quale ha attribuito l’apposita delega a un Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio. Tre scelte politiche chiare e lecite che sottolineano con evidenza la loro rispettiva ratio. Il rischio della “politicizzazione” del digitale, tuttavia, è che esso diventi oggetto di “conquista politica”, con la conseguenza che l’alternarsi delle diverse forze politiche ne imponga un’evoluzione intermittente e singhiozzante, “a gambero”, unicamente a causa di preconcetti e posizioni politiche contrapposte. Tale disfunzione potrebbe essere evitata prendendo atto della trasversalità del digitale e della sua azione abilitante anche per altri ambiti, e dunque della sua centralità, a prescindere dall’orientamento politico.

 

7. Quali sono le maggiori criticità che si possono verificare nel contesto dell’analisi dei dati (aperti e non) per il sistema pubblico?

Nel panorama ampio della digitalizzazione, la circostanza per cui la pubblica amministrazione mette a disposizione di cittadini, imprese e alle altre amministrazioni, dati aperti, risulta essere necessaria ma non sufficiente. Necessaria, in quanto l’apertura dei dati è un elemento imprescindibile per il successivo esercizio della funzione di analisi degli Open Data; solo così l’amministrazione diviene realmente, e non solo formalmente, digitale. Non sufficiente, invece, per un duplice ordine di motivi.
Il primo è legato al lavoro che la messa a disposizione dei dati aperti richiede alla pubblica amministrazione – e, dunque, alle risorse necessarie a tal fine. Non basta, infatti, “aprire” i dati e caricarli sul web. È necessario che l’Amministrazione curi la qualità di tali dati, i quali devono essere “puliti” prima di essere oggetto di upload a vantaggio dei terzi: devono essere verificati, sistematizzati, conservati e messi in correlazione con altri, prima di essere resi consultabili. È necessario, pertanto, un intervento a monte da parte della pa, cui si deve affiancare, a valle, anche un’azione ulteriore e successiva. L’Amministrazione, infatti, non può limitarsi soltanto a vagliare ex ante la qualità dei dati, ma lo deve fare anche in itinere: deve intervenire, in altri termini, in un secondo momento, aggiornando costantemente i dati esistenti e mettendoli in connessione con quelli che via via vengono generati – sempre curandone la conservazione e le concrete modalità di fruibilità – e adottando adeguati sistemi interoperabili.
Il secondo motivo, invece, attiene alla conoscenza digitale necessaria nell’Open Data Analysis pubblica. Questo aspetto si riflette sia sulla stessa pa sia, soprattutto, su cittadini e imprese. Sul primo versante, è evidente che l’amministrazione deve avere al proprio interno funzionari dotati di competenze tecnico-informatiche in grado effettivamente di procedere all’apertura dei dati nei termini poc’anzi descritti. Ma è altrettanto necessario che tali competenze siano presenti anche nei soggetti terzi, di modo tale da avere una domanda che soddisfi l’offerta: se pare intuitiva l’affermazione secondo cui queste competenze possano (almeno potenzialmente) essere presenti maggiormente nelle imprese rispetto ai cittadini, tale tesi risulta in contrasto con le esperienze di Open Source che sono sorte, da basso, negli anni. In ogni caso, il tema dell’alfabetizzazione digitale si dimostra essere centrale e chiaramente non può, e non deve, essere trattato come l’Elephant in the room.

 

8. Ha citato l’interoperabilità, che è un altro punto dolente se si allarga lo sguardo del processo di digitalizzazione agli ultimi lustri. Quali sono state le cause del ritardo?

Il Codice dell’amministrazione digitale (art. 1, co. 1, lett. dd) d.lgs. 82 del 2005) definisce l’interoperabilità quella «caratteristica di un sistema informativo, le cui interfacce sono pubbliche e aperte, di interagire in maniera automatica con altri sistemi informativi per lo scambio di informazioni e l’erogazione di servizi». L’interoperabilità, pertanto, risulta essere cruciale nel processo di digitalizzazione, poiché agevolando l’interazione fra sistemi informativi diversi fra loro, consente lo scambio e il riutilizzo dei rispettivi dati. L’importanza di questa caratteristica emerge in particolare dal PNRR, il quale ha previsto lo stanziamento di circa 650 milioni di € proprio in relazione a “Dati e Interoperabilità” (cfr. Missione 1, Componente 1, Investimento 1.3.). Tale stanziamento, al contempo, sottolinea altresì le difficoltà presenti nel nostro Paese su questo specifico punto, dovute principalmente alla presenza di numerosi e differenti sistemi informativi di tipo proprietario, in adozione alle Pubbliche amministrazioni; aspetto che testimonia la scarsa applicazione delle previsioni del Codice dell’amministrazione digitale volte a promuovere l’acquisizione di software non proprietari e a favorire il loro riuso all’interno delle pubbliche amministrazioni (artt. 68 e 69 d.lgs. n. 82 del 2005).

 

9. Quanto pesa il problema delle competenze digitali in Italia?

Il basso livello di alfabetizzazione digitale presente in Italia si riverbera giocoforza sul piano, più ampio, della cultura digitale. Come il menzionato DESI 2023 ha messo in evidenza, infatti, le conoscenze digitali degli italiani si attestano fra le più basse di tutta l’Unione europea: solamente il 46% dei cittadini italiani possiede competenze digitali di base (rispetto alla media europea del 54%), e appena il 23% dimostra competenze digitali superiori a quelle di base (contro il 26% della media europea) (cfr. Commissione Europea, DESI 2022, sez. Human Capital). Tale situazione generale si riflette anche all’interno della stessa pubblica amministrazione che, come noto, è contraddistinta da un’età media elevata dei dipendenti pubblici e da una percentuale minima di funzionari appartenenti alla generazione c.d. nativa digitale. In tal senso, è evidente il peso della questione della cultura digitale nel nostro Paese, in grado di rappresentare un potente freno al processo di digitalizzazione e, più in generale, all’innovazione nel suo complesso. Circostanza, d’altronde, che emerge in maniera plastica dai numerosi atti strategici e progetti predisposti dalle Istituzioni pubbliche al fine di innalzare il livello di alfabetizzazione digitale del Paese (si pensi, ad esempio, oltre al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, alla Strategia per l’innovazione tecnologica e alla digitalizzazione del Paese 2025 e alla Strategia Nazionale per le Competenze Digitali), accompagnati da puntuali stanziamenti di risorse finanziarie (come nel caso del Fondo per la Repubblica Digitale). In un simile contesto, tuttavia, prima ancora degli specifici progetti istituzionali, un ruolo fondamentale è innegabilmente ricoperto dalla Scuola e dall’Università. Proprio la diffusione di studi dottrinali, nel campo giuridico ma non solo, in cui il tema del digitale è slegato dall’angusto ambito tecnico e viene affrontato in chiave umanistica, pare suggerire che il percorso intrapreso sia quello corretto.

 

10. Quali sono, secondo Lei, i maggiori rischi della digitalizzazione?

Ritengo che i maggiori rischi derivanti dall’attuazione del processo di digitalizzazione della pubblica amministrazione siano sostanzialmente due. Il primo attiene al fenomeno del c.d. digital divide, vale a dire il divario nell’accesso alla tecnologia che, nella realtà dei fatti, può verificarsi fra fasce di popolazione o fra aree geografiche del Paese, in grado di costituire un vulnus alla tutela delle situazioni giuridiche soggettive. Fattore che però può essere limitato attraverso la predisposizione di adeguate politiche digitali. Il secondo rischio, invece, può essere rappresentato dalle (forse troppo?) grandi aspettative che normalmente vengono riposte nella digitalizzazione come panacea per molti mali (soprattutto della Pubblica Amministrazione). Mitizzando la tecnologia e gli strumenti digitali si corre il pericolo di vedere inevitabilmente tradite le aspettative. Occorre dare fiducia nell’uso umano della tecnologia anziché (unicamente) nella tecnologia in sé. Proprio per questa ragione dovrebbe essere ulteriormente promossa una cultura digitale che, da un lato, metta sì in risalto l’utilità delle ICT ma anche i limiti che, in quanto strumenti concreti, intrinsecamente presentano; dall’altro, che sottolinei come nel processo tecnologico persista la centralità della persona umana. Perché alla fine il processo digitale, proprio in quanto mezzo volto a migliorare la vita dell’uomo, non può non tener conto dei bisogni umani. E sembra che le recenti discussioni in relazione all’opportunità di estendere le ricerche sull’intelligenza artificiale confermino questa lettura.

 

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