Fare l’Italia unita attraverso la scuola: il «calabresino» di De Amicis

Tre grandi fattori hanno concorso dopo l’unificazione a costruire un’identità nazionale italiana: la scuola, la leva militare (poi la guerra in trincea del 1915-18), la burocrazia.

Un libro edito da Treves nel 1886 e destinato a un eccezionale successo, il Cuore di Edmondo De Amicis, raccontava l’anno scolastico di una classe delle elementari a Torino, primi anni ottanta dell’Ottocento. Per generazioni i ragazzi italiani lo avrebbero letto e riletto. Per molto tempo ne avrebbero ricavato modelli di comportamento, scale di valori, un’idea di cittadinanza.

Oggi è fuori moda, giustamente. Per la verità lo era già quando, nel Sessantotto (inteso come l’anno della rivoluzione studentesca in Europa e poi in Italia), il giovane Umberto Eco ne contestava la «melassa» patriottica e la retorica borghese nel suo Diario minimo, un libro «sovversivo»  (Bompiani, 1962), scrivendo un graffiante Elogio di Franti rimasto memorabile: Franti, dei bambini di De Amicis, era l’ultimo della classe, l’irriducibile teppista ribelle a ogni regola e a ogni buon sentimento. Un portatore di disvalori, a fare da contraltare ai tanti bambini virtuosi di quella classe. Lascerà la scuola e finirà i suoi giorni in prigione, naturalmente.

Ma nel brano che segue non si parla di Franti. Si descrive invece l’arrivo in classe del compagno meridionale: piccolo, nero, malvestito, gli occhi bassi per la timidezza, l’accento marcatamente del Sud nel parlare un italiano incerto. Il tema è l’integrazione: la scuola nazionale formatrice degli italiani. Un’epica se si vuole dolciastra, ma che potrebbe rimandare, mutate le situazioni e al netto della retorica, al tema oggi attualissimo dell’integrazione dei bambini immigrati.

 

Entrò il direttore con il nuovo iscritto, un ragazzo di viso molto bruno, coi capelli neri, con gli occhi grandi e neri, con le soppracciglia folte e raggiunte sulla fronte; tutto vestito di scuro, con una cintura di marocchino nero intorno alla vita. Il direttore, dopo aver parlato nell’orecchio al maestro, se ne uscì lasciandogli accanto il ragazzo, che guardava noi con quegli occhioni neri, come spaurito.

Allora il maestro gli prese una mano, e disse alla classe: «Voi dovete essere contenti. Oggi entra nella scuola un piccolo italiano nato a Reggio di Calabria, a più di cinquecento miglia di qua. Vogliate bene al vostro fratello venuto di lontano. Egli  nato in una terra gloriosa, che diede all’Italia degli uomini illustri , e le diede dei forti lavoratori e dei bravi soldati (…). Vogliategli bene, in maniera che non s’accorga di essere lontano dalla città dove  nato; fategli vedere che un ragazzo italiano, in qualunque scuola italiana metta il piede, ci trova dei fratelli».

Poi chiamò forte: «Ernesto Derossi!». Quello che ha sempre il primo premio. (…) Derossi uscì dal banco e s’andò a mettere accanto al tavolino, in faccia al calabrese. «Come primo della scuola – gli disse il maestro – dai l’abbraccio del benvenuto, in nome di tutta la classe, al nuovo compagno; l’abbraccio del figliuolo del Piemonte al figliuolo della Calabria».