Facebook perde il pelo (e, forse, 7 mln di euro) ma non il vizio (di abusare dei dati)

Nel dicembre 2018 l’Antitrust italiana ha rilevato una lunga serie di violazioni al Codice del Consumo e ha comminato al gigante dei social sanzioni per complessivi 10 mln di euro. Il TAR Lazio, successivamente chiamato a pronunciarsi, le ha riconosciute come parzialmente legittime, riducendone l’importo a 5 mln di euro e prescrivendo la pubblicazione di una dichiarazione rettificativa circa l’uso commerciale dei dati personali degli iscritti. Dichiarazione che Facebook non ha provveduto a pubblicare, continuando addirittura a porre in essere la condotta già sanzionata, così determinando da parte dell’AGCM l’applicazione di una nuova sanzione di 7 mln di euro per l’inottemperanza riscontrata.

Tutto parte dall’esposto di alcune associazioni di consumatori, sul cui contenuto l’Antitrust italiana ha avviato una istruttoria conclusasi con l’accertamento di due pratiche commerciali scorrette – e 10 mln di euro di sanzioni – attuate da Facebook nelle fasi di raccolta, circolazione verso soggetti terzi e utilizzo per fini commerciali dei dati personali dei propri iscritti.
Con la prima multa, in particolare, l’AGCM ha sanzionato la pratica ritenuta ingannevole ai sensi degli artt. 21 e 22 del Codice del Consumo, sulla base di una omessa adeguata informativa ai propri utenti da parte di Facebook. Al momento della registrazione, infatti, la piattaforma non avrebbe chiaramente indicato le finalità di profilazione commerciale connesse alla raccolta e all’utilizzo dei dati, addirittura pubblicizzando la gratuità del servizio (“Iscriviti È gratis e lo sarà per sempre”), così potendo indurre il consumatore del servizio ad una decisione di natura commerciale che altrimenti non avrebbe preso.

La seconda multa elevata a carico del social ha trovato invece giustificazione quale sanzione avverso una pratica aggressiva ai sensi degli artt. 24 e 25 del Codice del Consumo, ovvero nella trasmissione non espressamente e non preventivamente autorizzata in favore di soggetti terzi dei dati degli iscritti, i quali avrebbero subìto un indebito condizionamento in sede di registrazione nel momento in cui veniva lasciata loro la mera facoltà di opt-out, rispetto ad un setting iniziale di utilizzo dei dati che risultava preimpostato nel senso della più ampia condivisione.

Il TAR Lazio, con le pronunce 260 e 261 del 2020, è quindi intervenuto sulla questione: da un lato,  il Collegio ha annullato la seconda multa in quanto la “pre-selezione” delle opzioni a disposizione dell’aspirante nuovo iscritto “non solo non comporta alcuna trasmissione di dati dalla piattaforma a quella di soggetti terzi, ma è seguita da una ulteriore serie di passaggi necessitati, in cui l’utente è chiamato a decidere se e quali dei suoi dati intende condividere al fine di consentire l’integrazione tra le piattaforme”; dall’altro lato, invece, è stata confermata la legittimità della prima sanzione irrogata dall’AGCM a Facebook, affermando e riconoscendo il valore economico del dato personale (qui).

La cd. patrimonializzazione delle informazioni inerenti alla sfera individuale, infatti, trasforma queste in un vero e proprio asset suscettibile di sfruttamento economico (riporta il TAR come “i ricavi provenienti dalla pubblicità online, basata sulla profilazione degli utenti a partire dai loro dati, costituiscono l’intero fatturato di Facebook Ireland Ltd. e il 98% del fatturato di Facebook Inc.”), a sua volta inquadrabile nella disciplina del consumatore – che perciò si aggiunge e completa quella più tradizionale in materia di protezione dei dati personali contenuta nel GDPR (qui e qui) – in quanto idonea a essere qualificata come “controprestazione”.

Il TAR Lazio ha inoltre ritenuto legittima la misura accessoria prevista dell’art. 27, comma 8, del Codice del consumo, secondo cui, con il provvedimento che irroga la sanzione pecuniaria, “può essere disposta (…) la pubblicazione della delibera, anche per estratto, ovvero di un’apposita dichiarazione rettificativa, in modo da impedire che le pratiche commerciali scorrette continuino a produrre effetti”.

L’obbligo di pubblicazione della dichiarazione rettificativa così come richiesta dall’Antitrust è risultato pertanto del tutto giustificato in ragione delle finalità perseguite (“la dichiarazione non ha lo scopo di sanzionare l’operatore pubblicitario, ovvero di risarcire i soggetti già lesi dal messaggio, bensì di impedire, da un lato, eventuali future riedizioni del messaggio e dall’altro di contrastare l’eventuale persistere degli effetti del “claim” ingannevole”), e proporzionato alla diffusione del messaggio quanto alle modalità imposte (l’AGCM ha richiesto la visibilità “mirata” della rettifica, solo a chi acceda alla “homepage” di Facebook o alla relativa “app”, per un periodo di tempo circoscritto pari a venti giorni e a ciascun utente registrato per una sola volta in occasione del suo primo accesso alla propria pagina personale Facebook).

La palese inosservanza da parte di Facebook della misura accessoria stabilita dal provvedimento Antitrust n. 27432 del 29 novembre 2018, peraltro confermata in sede giurisdizionale, ha determinato quindi l’avvio di un nuovo procedimento per inottemperanza (21 gennaio 2020, n. 28072), con cui l’Autorità ha rilevato anche la persistenza dell’ingannevolezza della condotta già sanzionata, ciò nonostante le iniziative nel frattempo adottate dal colosso informatico, ritenute però dall’AGCM inefficaci e sostanzialmente elusive di quanto richiesto.

FB, infatti, dopo l’avvio del procedimento per inottemperanza, ha rimosso il claim sulla gratuità del servizio e ha modificato la visualizzazione e la struttura della sua homepage che, a differenza della situazione precedente in cui l’iscrizione avveniva dalla stessa pagina iniziale, ora consiste nella medesima homepage e in una ulteriore diversa schermata di registrazione che si apre cliccando sul pulsante “Crea nuovo account”. Qui l’aspirante nuovo iscritto visualizza il registration form e il disclaimer legale contenente il riferimento alle Condizioni d’uso, alla Normativa sui dati ed alla Normativa sui cookie, ma la procedura di registrazione alla piattaforma ancora oggi non prevede alcuna informazione specifica sulla raccolta e il trattamento a fini commerciali dei dati degli utenti, limitandosi a prevedere dei link di mero rinvio nel disclaimer.

Nessuna traccia nemmeno della dichiarazione rettificativa espressamente richiesta dall’Autorità nel procedimento sanzionatorio iniziale.

Ma perché Facebook non ottempera, anzi finge di voler ottemperare ma poi si ritrae?

Forse perché confida negli esiti dell’appello che pende in Consiglio di Stato su quanto deciso dal TAR Lazio, o forse perché la pubblicazione di una dichiarazione rettificativa è a suo dire in grado di incrinare il rapporto di fiducia con gli utenti, o forse ancora – più banalmente – perché un colosso internazionale del web, cui fa capo una rete globale di altri social altrettanto utilizzati e in grado di smuovere e orientare il pensiero di miliardi di utenti (2,80 miliardi di utenti mensili attivi, 1,73 miliardi attivi giornalmente) è per sua natura meno incline a sottomettersi alla giurisdizione di un paese fondamentalmente piccolo in termini di popolazione (poco più di 60 milioni di italiani), con il pericolo tra l’altro di attivare tendenze analoghe su scala mondiale.

Del resto, il consumatore – utente che oggi volesse iscriversi al social network continua ad essere non pienamente informato circa la raccolta e l’utilizzo a fini commerciali dei suoi dati da parte del gestore.

E non basta che queste informazioni siano reperibili nelle Condizioni d’Uso, nella Normativa sui Dati e nella Normativa sui cookie, sebbene FB sostenga che esse siano tutte immediatamente accessibili tramite link ipertestuali presenti sia in sede di registrazione che nell’immediata vicinanza del pulsante “Iscriviti” all’atto della prima registrazione.

Si tratta di misure già bollate come insufficienti nel provvedimento Antitrust del 29 novembre 2018, n. 27432 e dal TAR Lazio, che ha rilevato come l’assenza dell’informazione sull’uso dei dati commerciali degli utenti nella pagina di registrazione determinasse una “grave incompletezza informativa che non può essere sanata dai meri rimandi tramite link ad ulteriori approfondimenti”, perchè si tratta di una informazione assolutamente necessaria per assumere una decisione consapevole in merito all’adesione al social.

Al Consiglio di Stato, quindi, l’onere e l’onore di sciogliere l’intricata vicenda, tra la tutela del consumatore per l’usabilità cosciente del dato personale, sostenuta dall’Antitrust, e la “vocazione globale” del social più diffuso.

Nel frattempo, l’Autorità Garante delibera ulteriori 5 milioni di euro di multa per la persistenza della condotta ingannevole già rilevata e altri 2 milioni per la mancata pubblicazione della dichiarazione rettificativa richiesta: sig. Zuckerberg, concilia?!

 

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