Ezio Vanoni e l’arretratezza omerica

Ezio Vanoni, ministro del Bilancio (e ad interim anche del Tesoro) nel governo Segni I, morì improvvisamente il 16 febbraio 1956 nell’aula del Senato, dove aveva appena finito di parlare. Era nato a Morbegno  il 3 agosto del 1903. Era tra i più stimati studiosi della scienza delle finanze e del diritto finanziario. Amico di Sergio Paronetto, legatissimo a Pasquale Saraceno (entrambi nati come lui a Morbegno), aveva aderito alla Dc sin dai tempi del Codice di Camaldoli. Eletto alla Costituente e poi in Parlamento, era tra i più convinti sostenitori della necessità di una profonda riforma tributaria, che, traducendosi in norme nel 1951, avrebbe preso da lui il nome di Legge Vanoni (forse l’unica vera riforma della materia in tutta la storia d’Italia, che introdusse tra l’altro la dichiarazione dei redditi). Nel dicembre del 1954 il governo Scelba, del quale Vanoni faceva parte, aveva approvato per sua iniziativa  lo “Schema di sviluppo dell’occupazione e del reddito in Italia nel decennio 1955-64”, presentato poi in Parlamento e divenuto il piano decennale per l’economia (il Piano Vanoni, appunto). Obiettivi: ridurre il divario Nord-Sud e risanare il bilancio dello Stato. Fu mentre difendeva il suo Piano e parlava delle tappe necessarie per realizzarlo (più precisamente dopo aver denunziato l’arretratezza di certe scandalose situazioni agrarie dell’Italia di montagna al Nord e di quella contadina al Sud) che lo colse la morte. Un collasso cardiaco lo spense, riverso sul divanetto della stanza del presidente del Senato Merzagora.

Qui si riportano due passaggi significativi di quell’ultimo intervento, quasi una testimonianza (colpisce nel verbale della seduta l’accenno all’affievolirsi della voce e alla stanchezza) e insieme un lascito spirituale, l’uno sul ruolo infelice del ministro del Tesoro, l’altro sulle persistenti arretratezze dell’Italia e in particolare del Mezzogiorno.

 

 

È, il ministro del Tesoro, il più disgraziato dei ministri di qualsiasi Gabinetto, perché è su di lui che incombe il dovere di conciliare, insieme con il Presidente del Consiglio, le diverse e divergenti esigenze che si muovono nella vita sociale di un Paese. Né è possibile incrementare o suggerire incrementi di nuove spese, e nello stesso tempo suggerire o imporre limitazioni delle entrate. Bisogna trovare un punto d’equilibrio tra le due diverse esigenze che si presentano nel Paese; e bisogna ad un certo momento assumersi la responsabilità di trovare l’equilibrio migliore, il più sano, il più rispondente alle esigenze della nostra produzione e della nostra vita sociale. Mi ha sorpreso ieri, oltre che addolorato, per la grande stima che io ho per il senatore Condorelli[1], sentirla dire con olimpica tranquillità: «Voi siete uomini di sinistra». La sua squisita cortesia non gli ha permesso di dire ciò che in quel momento mostrava di pensare: «Voi siete uomini sinistri per il bilancio dello Stato; noi non ci aspettiamo salvezza da voi». Devo dire, onorevole Condorelli, molto semplicemente che non c’è politica finanziaria più dura, più severa, più accurata di quella richiesta dall’esigenza del miglioramento sociale ed economica di un Paese depresso come il nostro. Guai a noi se indulgessimo, in qualsiasi momento, a spese inutili, guai a noi se indulgessimo in qualsiasi momento, per considerazioni di tranquillità e di popolarità, nell’amministrazione delle entrate del nostro Paese. Noi non risolveremo mai i nostri tragici problemi di fondo, se non sapremo trovare il modo di destinare, nei limiti delle nostre forze, delle nostre capacità, delle nostre valutazioni ogni lira disponibile per il benessere della gente più umile che popola il nostro Paese. Guai a noi, se nell’amministrare i tributi non sapessimo usare la giusta severità, il giusto equilibrio nel saper prendere a chi può, per dare a chi ha bisogno di avere. Noi siamo certamente uomini orientati, per usare un luogo comune tanto diffuso, in senso sociale, quindi, si dice, in senso di sinistra. Ma io non posso mai dimenticare alcune esperienze della mia vita, quando opero sul terreno politico. Non posso dimenticare, ad esempio, senatore Condorelli, che vi è nella mia Provincia un piccolo Comune di 1.200 abitanti, il quale ancora oggi è collegato con la pianura per mezzo di una mulattiera, sicché occorrono cinque ore di cammino a piedi per raggiungerla. E quando si sale lassù, come io qualche volta ho fatto prima e dopo la mia vocazione politica, e ci si accosta al palazzo municipale, e si vede il ricordo dei caduti nelle due guerre e si nota che questo piccolo villaggio di montagna ha avuto nelle due guerre il maggior rapporto tra popolazione residente e caduti, si orienta necessariamente la propria opera, come credo di aver sempre fatto nella mia vita politica, affinché questi 1.200 contadini montanari, cui non è possibile evitare la chiamata alle armi perché non hanno tecniche speciali che li allontanino dalla prima linea (…) e perché sono solo pastori, contadini e boscaioli, abbiano una tranquillità economica ed una speranza in un avvenire migliore per sé e per i propri figli. (Voci: Non si sente!).

Vorrei pregare gli onorevoli colleghi di avere un po’ di pazienza per il fatto che oggi non ho molta voce, non sono nel pieno possesso delle mie doti vocali, perché sono un po’ stanco. (…).

Ora questa è la nostra politica: ricordarsi di questi uomini che in guerra, e anche come partigiani, sacrificarono la loro vita ad un’Italia che tante volte si ricorda di loro solo per mandare la cartolina-precetto e non per costruire le strade che rendano più agevole la vita di queste contrade. Questa è la nostra politica di sinistra.

Voglio ricordare un’esperienza della mia vita che si avvicina alle centinaia di esperienze che ha fatto il nostro Presidente Segni. Nella mia vita fui per anni professore nell’Università di Cagliari; durante quegli anni fui richiamato una volta in servizio militare per esercitazioni nell’interno della Sardegna e fui convocato, per raggiungere il reggimento, in una piccola cittadina, Osìni, bella, simpatica, piena di persone ospitali, come sanno essere i Sardi.

E come sempre avviene nella vita militare, fui convocato qualche giorno prima dell’arrivo del reggimento, per cui mi godetti delle vacanze serene nell’interno di quell’isola, così piena di magìa ma anche così ricca di miserie e di sofferenze. E vidi in questo Comune di Osìni una scena che basta da sola a giustificare l’impegno del Presidente Segni per innovare le condizioni di vita del mondo rurale del nostro Paese. Alla sera, quando si alzava la brezza del tramonto, vidi la popolazione accorrere in uno spiazzo fuori della città e battere il grano, facendo camminare sul grano i buoi; sembrava una scena omerica.

Ora, vedere in pieno secolo ventesimo una cittadina vivere ancora con usi e costumi non degni del nostro tempio, vedere situazioni agricole nelle quali si ignorano la trebbia e le più semplici macchine moderne e si batte il grano alzandolo alla brezza della sera con uno strumento rudimentale perché il vento portasse con sé la pola; tutto ciò, io penso, sia una cosa che non può essere tollerata in un Paese che vuole essere allineato con i Paesi moderni.

Atti Parlamentari Senato della Repubblica, Leg. II, Discussioni, seduta del 16 febbraio 1956, pp. 14853-14855.

[1] Orazio Condorelli, senatore del Partito nazionale monarchico.