Corrado Calabrò: a 28 anni, in ufficio con Moro

Corrado Calabrò (Reggio Calabria, 1935) è oggi soprattutto un apprezzato e pluripremiato autore di versi (mai banali). Ma nella sua operosa vita al servizio delle istituzioni ha ricoperto ruoli di grandissima rilevanza pubblica. Giovanissimo, nel 1968, dopo un fruttuoso periodo di apprendistato alla Corte dei conti, ha vinto il difficilissimo concorso per il Consiglio di Stato, istituto nel quale avrebbe a lungo e efficacemente operato raggiungendovi infine il grado di presidente di sezione. Nel frattempo era entrato nel gabinetto di Aldo Moro al tempo del primo governo di centro-sinistra e, sia pure ancora “giovane di bottega”, ne sarebbe divenuto dal 1963 al 1968 il capo della segreteria tecnica, lavorando sotto la guida e a stretto contatto del capo di gabinetto di Moro, l’avvocato dello Stato Giuseppe Manzari. Avrebbe percorso dopo quelle prime prove una carriera lunga e di grandi responsabilità, essendo capo di gabinetto in numerosissimi ministeri della cosiddetta prima Repubblica. Nel 2005 sarebbe stato nominato infine presidente dell’Autorità per le garanzie nella comunicazione. Innumerevoli gli attestati e le decorazioni conferitegli. Qui però si riporta un suo ricordo inedito, tratto da una lunga e bella intervista raccolta negli anni scorsi nell’ambito della ricerca sui gabinetti ministeriali diretta da me e da Alessandro Natalini (oggi visibile integralmente sui sito dell’Istituto centrale degli archivi): Calabrò vi rammenta il modo di lavorare di Aldo Moro, dando del leader democristiano un ritratto di grande intensità. Vi traspare – non sarà difficile notarlo ma ancor più risulterà evidente se si risalirà all’intervista integrale, accessibile nel sito dell’Icar –,  la mai sopita nostalgia di Calabrò per un’amicizia umana profonda, duratura, nata nelle stanze di Palazzo Chigi in quei primi anni della sua esperienza di civil servant e che, se così si può dire essendo Moro tragicamente scomparso, è continuata e continua idealmente negli anni.

Stetti cinque anni con Moro a Palazzo Chigi. Nel frattempo facevo anche il mio lavoro alla Corte dei conti e studiavo, la notte, per diventare consigliere di Stato. Eravamo da poco a Palazzo Chigi, perché i due precedenti governi, quello di Fanfani e quello, “balneare”, di Leone adottavano come sede della Presidenza la palazzina dei Viminale. Ciò ci diede un vantaggio: ci consentì di scegliere il personale con più libertà, affiancando a quello tradizionale comandato dall’Interno anche bravi funzionari presi da altre amministrazioni. Era un corpo variegato, in tutto un centinaio di persone. Fui io l’incaricato di cercare questi collaboratori e di selezionarli. Costruimmo, con Manzari, l’apparato della Presidenza, ne facemmo un corpo snello, efficiente. Divenimmo il punto di riferimento vero dei ministeri. Poi i successori in parte sprecarono quell’esperienza riempiendo la Presidenza dei loro “chiamati” e l’amministrazione diventò gigantesca e inefficiente.

 

Io arrivavo in ufficio verso le 9. Lui, Moro, mai prima delle 10. La mattinata era di routine, le ore migliori per lui erano quelle pomeridiane e serali, quando il suo attivismo raggiungeva il massimo.  Era allora che ci chiamava, me e soprattutto Manzari, e esaminava con noi i problemi sul tappeto. Di me si fidava molto. E io lo ricambiavo con affetto, affascinato com’ero dal suo stile personale. Cercavo quasi di imitarlo. Per esempio, quasi inconsapevolmente, scrivevo le minute delle sue lettere e degli atti che mi delegava adottando il suo stile, le sue parole, il suo modo di impostare la frase. Poteva succedere (nonostante avessimo un ottimo Legislativo, guidato da Beniamino Leoni) che mi chiedesse anche di stilare un disegno di legge (come accadde per quello, su materia delicatissima, riguardo al riconoscimento dei figli nati fuori del matrimonio, un problema che stava a cuore a Pietro Nenni, col quale Moro mantenne sempre un rapporto di stima profonda e di amicizia). La sera, a pratiche esaurite, un po’ stanchi, poteva capitare anche di parlare tra di noi e lui allora si apriva. Erano le ore più belle. Non è vero che Moro era complicato, che non sapeva chiaramente dire il suo pensiero. Tutto il contrario. Aveva una visione della politica a 180 gradi, un disegno lucidissimo che perseguiva con determinazione. Lui era soprattutto concentrato sui problemi della transizione italiana (e sullo sfondo delle grandi mutazioni in atto nel mondo). Il problema era il grande sviluppo che l’Italia aveva avuto nel dopoguerra e le contraddizioni che ne erano nate, i ritardi dello Stato e della politica. Questo era il suo problema”.

 

 

“Finii per occuparmi quasi di tutto. La vicenda più delicata fu quando dovemmo apporre gli “omissis” al Piano Solo. Li ponemmo tutti Manzari ed io e lui li sottoscrisse senza variazioni. Ma un “omissis” lo volle mettere lui personalmente e riguardava la posizione personale di un parlamentare dell’opposizione a lui molto ostile, sul quale dalle carte emergeva qualche fatto sgradevole. Gli dissi: “Ma presidente, perché vuole salvarlo, se è un suo avversario”. E lui: “Calabrò, lei si occupi della parte pratica, la politica la lasci fare a me””.

 

Icar, ricerca su I gabinetti ministeriali 1861-2018,  diretta da G. Melis e A. Natalini, https://www.tiraccontolastoria.san.beniculturali.it/index.php?page=View.ObjectMetaData&id=gabinettisti%3Acalabro. Cfr. anche G. Melis, Moro e la prassi di governo, in Aldo Moro nella storia della Repubblica, a cura di N. Antonetti, Bologna, il Mulino, 2018, pp. 153 ss., ove questa fonte è citata per la prima volta.