Social media ban: anacronismi ed esigenze regolatorie. Il caso dell’Online Safety Amendment australiano

L’utilizzo dei social network fa ormai parte delle vite di ognuno, nelle varie funzioni che questi sono in grado di svolgere: da piattaforme di comunicazione e socializzazione a fonti di informazione. C’è un lato più oscuro, tuttavia, che non consente di considerare le piattaforme social come luoghi totalmente sicuri. Per tale ragione, l’Online Safety Amendment australiano ha imposto un divieto di utilizzo ai minori di 16 anni. Resta da chiedersi, tuttavia, se una misura preclusiva possa realmente proteggere il benessere dei minori.

 

 

 

In un panorama globale di proposte per limitare l’accesso ai social per i più giovani, l’Australia si è impegnata, a partire da dicembre 2025, a confinare l’utilizzo di alcuni social network per gli under 16.

Il governo australiano ha introdotto, con l’Online Safety Amendment, un limite minimo di età per l’utilizzo di alcune piattaforme social, tra cui SnapChat, TikTok, Instagram, X, dichiarandosi pronto a proteggere la salute mentale e il benessere dei più giovani dagli effetti nocivi dell’esposizione ai social network. La misura arriva in seguito a gravi episodi di cyberbullismo che hanno segnato l’opinione pubblica, che sembra infatti aver accolto con piacere la novità (secondo un sondaggio di YouGov il 77% degli australiani sarebbe favorevole).

È naturale chiedersi, tuttavia, – e molte testate giornalistiche non hanno mancato di farlo – se eliminare un problema possa equivalere a risolverlo.

Da un primo e più superficiale punto di vista, si scorge la questione dei possibili metodi alternativi che i giovani potrebbero trovare per aggirare il divieto loro imposto: si pensi che già in passato alcune piattaforme richiedevano un’età minima per l’iscrizione, requisito che, tuttavia, non ha mai realmente ostacolato l’accesso dei più piccoli, a cui è bastato inserire false informazioni senza il timore di alcuna successiva verifica. La possibilità è invero presa direttamente in considerazione dal Governo, che non vi ravvisa tuttavia una preoccupazione, trovando il suo principale obiettivo non tanto nella repressione di un comportamento delle persone fisiche (nello specifico, l’iscrizione dei più giovani sui social network), quanto piuttosto nell’orientare attività e policy delle aziende erogatrici di tali servizi. Tale impostazione sembra essere confermata dalla previsione di apposite e ingenti sanzioni solo in capo alle imprese che sistemicamente si rendano inadempienti nell’applicazione delle disposizioni relative ai limiti di età, e non anche nei confronti dei minori inosservati e/o delle loro famiglie.

Si rimarca, dunque, il carattere deterrente e non afflittivo della misura.

I veri destinatari della novella, dunque, appaiono essere direttamente le grandi aziende che gestiscono una o più piattaforme social, messe così nella posizione di dover adeguare i propri contenuti ed il proprio funzionamento a regole più stringenti a salvaguardia dei più piccoli e fragili, al fine di non vedersi portata via una grossa fetta di user, peraltro quelli più attivi, benzina che alimenta il mercato degli influencer e della stragrande maggioranza dei profili non privati e di pagine di contenuti (sulla regolazione di tali nuove professioni, si veda l’articolo di M. Giusti, Nuove regole per gli influencer). Creatori, per così dire, delle figure che della popolarità sui social hanno fatto il proprio mestiere, e che ora attraggono nuovi utenti attraverso la propria attività, generando così un effetto a catena. Un’eventuale migrazione dei giovani potrebbe portare, come già successo in passato nel passaggio da Messenger a Facebook, a un esodo collettivo, e dunque ad un abbandono di alcune piattaforme, e ciò a testimonianza della strettissima connessione tra i social network e la giovane età.

Nell’evoluzione della categoria si è potuto assistere al passaggio dalla fase primordiale, in cui i social nascevano da e per i giovani come piattaforma di comunicazione e condivisione (si pensi a Messenger e MySpace, e successivamente il primo Facebook), a un autentico mercato frequentato da persone di ogni età e tipologia, non più a soli fini sociali, ma anche e soprattutto lucrativi. Misure di questo tipo possono arginare una tendenza, scoraggiandola, ma non frenano la voglia di vivere il proprio tempo, all’opposto incendiandola con la creazione di sistemi alternativi: per analogia, si pensi all’ingresso su Facebook di un’utenza più adulta e la conseguente reazione dei più giovani, migrati su altri social di cui hanno fatto la fortuna. I flussi generazionali e le loro legittime pretese possono essere guidati, ma non arrestati.

Sulla base di quanto detto, assumendo un punto di vista più profondo, si incardina il dubbio che tale misura sia intrinsecamente contraddittoria: togliere l’utilizzo di piattaforme nate originariamente per i giovani e utilizzate perlopiù da essi significa, da un lato, far perdere del tutto la funzione e la destinazione iniziali dei social e, al contempo, privare i ragazzi di un’attività che gli appartiene, che intreccia costantemente le loro vite e il pezzo di Storia in cui è toccato loro di nascere, quello dei c.d., per l’appunto, nativi digitali.

Per il governo australiano, tuttavia, le piattaforme hanno la “responsabilità sociale” di rendere priorità la sicurezza degli adolescenti, e questa osservazione sembra essere stata condivisa anche in altri continenti.

In Europa, ad esempio, la Francia ha introdotto un divieto di iscrizione ai social per gli under 15 (“majorité numérique”), e chiede all’Unione europea un’azione congiunta in merito, indirizzando i suoi appelli in particolare verso la Polonia, di cui è prossimo il periodo di presidenza. L’Inghilterra, con il suo Online Safety Act, ha chiesto alle piattaforme social una più vigorosa protezione dei minori da contenuti pericolosi, e continua ad indirizzare i propri appelli verso i genitori, al fine di sensibilizzarli e fornire loro gli strumenti utili a monitorare l’attività online dei figli; tuttavia, l’approccio tipicamente liberale impedisce che si possa pensare all’imposizione di un vero e proprio divieto. I paesi dell’Unione europea, dal canto loro, possono contare su misure e principi comuni già in vigore, dettati dal GDPR, che prevede un’età minima inderogabile di accesso, pari a 13 anni, e dal Digital Services Act (DSA) – si veda, in proposito, l’approfondimento di A. Mattoscio, Digital Services Act: un “accordo storico”–.

In generale, da parte dei governi si registra una diffusa stretta sull’uso degli smartphone da parte dei minori, con divieti di utilizzo nelle ore scolastiche in Francia, Finlandia, Svezia, Olanda, Regno Unito e Italia.

Fuori dai confini del vecchio continente, Cina e Stati Uniti sembrano essere alla ricerca di un metodo per regolamentare l’utilizzo delle piattaforme.

In Italia, il Codice della Privacy prevede un’età minima di 14 anni per l’iscrizione ai social, senza tuttavia imporre una preclusione assoluta all’utilizzo in una più giovane età, per la quale viene richiesto un espresso consenso da parte dei genitori.

Il problema dell’efficacia di tali limiti anagrafici appare legato al fatto che l’osservanza degli stessi è rimessa alla correttezza del singolo: eventuali meccanismi di verifica preventiva, come fornire alla piattaforma dati personali e documenti ufficiali, potrebbero invero scontrarsi con il rispetto della privacy dell’utenza. Nella difficile ricerca di un punto di equilibrio tra esigenze di controllo e di riservatezza, la proposta italiana è stata quella di una limitazione a monte, sulle schede sim dei cellulari dei minori: il meccanismo, già usato per limitare l’accesso a categorie di siti internet elencate in apposita delibera dell’AGCOM, e che opera a livello di internet service provider, potrebbe astrattamente essere esteso anche alle piattaforme social.

Rimane sullo sfondo un necessario ed imperativo dubbio: è realmente essenziale, indispensabile, ragionevole e proporzionata una totale preclusione all’accesso di un’attività che è parte integrante della realtà odierna, e ancor più della crescita della c.d. Gen Z (e della Gen Alpha), nata in un mondo completamente digitalizzato e da questo plasmata, con comportamenti e abitudini inevitabilmente legati a doppio nodo ad esso? La misura, nel modo in cui è stata declinata in Australia, non appare essere del tutto cronologicamente coerente, portando una generazione nata metaforicamente “con lo smartphone in mano” a dover rinunciare a parte del mondo virtuale a cui tramite esso accede, quasi – dunque – trasportata in un’epoca storica diversa dalla propria.

Un diverso tipo di limitazione all’esposizione social potrebbe, invece, trovarsi in una maggior regolamentazione dell’utilizzo delle piattaforme, con una limitazione dei contenuti raggiungibili e misure a difesa della sensibilità di caratteri che si stanno formando.

Un approccio in tal senso eviterebbe non solo la ribellione adolescenziale in risposta ad un divieto, che peraltro sfocerebbe in un totale inadempimento o elusione dello stesso, ma altresì una risposta temporalmente coerente a bisogni nuovi. Siffatte modalità, regolatorie e non inibitorie, potrebbero assicurare un più efficace raggiungimento dell’obiettivo principale delle legislazioni presenti in questo campo, ossia proteggere il benessere e la salute mentale dei ragazzi, senza tuttavia negare loro accesso ad una componente – ormai – essenziale della vita di ogni giorno (sul dibattito relativo a benefici e criticità dei social network, si veda il contributo di G. Sgueo, Che fare dei social network? Più regole, più educazione o più diritti?). La regolazione del fenomeno consente, infatti, di non negarne in toto l’esistenza, e di riuscire a garantire alle nuove generazioni il rispetto del proprio “diritto ad un mondo digitale”, ad essi “coetaneo.

 

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