I collaboratori dei parlamentari

Il Rapporto Irpa n. 1/2014, curato da Hilde Caroli Casavola, pubblicato da Editoriale Scientifica, affronta il tema dei Collaboratori dei parlamentari e, dunque, del personale addetto alla politica.

Il Rapporto è stato presentato alla Sapienza il 29 aprile e, in precedenza, ne è stata data notizia su Italia Oggi)

Sulla rivista Nomos è stata pubblicata una recensione di Francesca Petrini, riportata di seguto.

 

Recensione del Rapporto Irpa n. 1/2014 – Pubblicata su Nomos, Attualità del diritto

Il collaboratore parlamentare è colei o colui che presta il proprio servizio intellettuale per lo svolgimento di specifiche mansioni all’interno delle segreterie dei singoli eletti e dei gruppi parlamentari. In via ricognitiva, paiono potersi individuare tre macro aree di competenza (legislativa, comunicazione, segreteria e rapporto con gli elettori) per ognuna delle quali sono richieste specifiche conoscenze e abilità, acquisite nel corso della carriera accademica e professionale, tali che non è possibile esimersi dal considerare i collaboratori parlamentari quali «“fusibili” del sistema: in assenza, la macchina politica si ferma». Questa è una delle evidenze che si traggono dall’indagine svolta dall’Istituto di ricerche sulla Pubblica Amministrazione (IRPA), nel recente rapporto 2014 dedicato al “Personale addetto alla politica” e curato da Hilde Caroli Casavola.

Interessante e coraggioso è certamente il proposito dell’Istituto fondato nel 2004 da Sabino Cassese e un gruppo di altri studiosi di diritto amministrativo di esaminare il fenomeno della proliferazione di questa specifica figura professionale ed i problemi che essa solleva. Categoria negletta e non a caso genericamente appellata dal connotato spregiativo “portaborse”, i collaboratori parlamentari sono infatti una parte di quegli “addetti alla politica” che risultano poco o per nulla studiati, nonché sfuggenti all’attività di rilevazione dei dati delle istituzioni pubbliche, sebbene invero esercitino competenze e assolvano funzioni diverse e di gran lunga più importanti di quelle attribuite loro nell’opinione comune, come lo stesso rapporto dimostra.

Al fine di comprendere quanti e chi sono i collaboratori di deputati e senatori, come vengono reclutati, cosa fanno, se e quanto sono retribuiti, si è scelto di effettuare un’indagine “sul campo”, svolta seguendo una duplice direzione: interviste mirate al target di operatori considerato e raccolta di dati attraverso la somministrazione di un questionario anonimo distribuito tra collaboratori di parlamentari a partire dall’ottobre 2013. Qui paradossalmente sta il limite e, insieme, il merito della ricerca dell’Irpa. Da un lato, il campione di quarantasette individui, fra intervistati e rispondenti al questionario online, potrebbe frustrare l’esito stesso dell’indagine per ristrettezza del campione stesso rispetto al dato – riportato anch’esso nel rapporto – secondo cui nel 2007 risultarono 683 collaboratori forniti di badge per l’accesso alla Camera dei deputati. Dall’altro, per superare i limiti della attività scientifica che si nutre oggi, assai più che in passato, della misurazione, della quantificazione e, spesso, della comparazione con fenomeni simili o con la dimensione del medesimo fenomeno in altri paesi e altri ordinamenti, il rapporto offre un contributo assolutamente inedito al dibattito pubblico, fornendo dati e analisi circostanziate del fenomeno della collaborazione parlamentare, non disgiunti dall’esame del contesto entro il quale esso si è realizzato, delle sue origini e dei suoi sviluppi, degli effetti, delle soluzioni adottate e, nei casi di più evidente disfunzione, delle possibili azioni correttive.

Dunque, se le interviste mirate e la raccolta di dati attraverso la somministrazione di un questionario potrebbero celare esisti statistici notevolmente differenti laddove fosse possibile estendere maggiormente il campione di riferimento, allo stesso tempo l’indagine – denunciandola – tenta di superare una delle problematiche principali legate al tema delle collaborazioni parlamentari ovverosia la mancanza di strumenti di conoscenza da parte della collettività. Ai cittadini è infatti negato qualsiasi tipo di informazione, quantificazione e controllo circa le caratteristiche della collaborazione parlamentare, le modalità di svolgimento degli incarichi e l’inquadramento giuridico dei relativi rapporti di lavoro. E tale circostanza si rivela tanto più grave quanto si considera che il fenomeno attiene allo svolgimento di attività e compiti essenziali alle dinamiche della rappresentanza democratica, tra l’altro finanziati con denaro pubblico in un periodo in cui la parola d’ordine nelle Assemblee legislative è spending review e difficoltosa, oltreché politicamente “scottante”, è la sua concreta declinazione nei provvedimenti normativi.

Non è quindi tanto e soltanto l’identikit del collaboratore parlamentare italiano tracciato nel rapporto a rendere interessante la ricerca, quanto la stessa iniziativa intrapresa: l’ipotesi – secondo cui tale categoria di “addetti alla politica” svolge un ruolo essenziale all’espletamento dei compiti istituzionali del Parlamento, verificata positivamente – si confronta con un’indagine prodromica circa la dimensione quantitativa del fenomeno che da sola sufficientemente indica la misura della complessità e difficoltà dello studio stesso. Tale analisi preliminare, infatti, ha dovuto necessariamente fare riferimento ai meccanismi di finanziamento della politica i cui «dati, frammentati e lacunosi, sono resi in modo oscuro e incompleto, spesso aggregati di voci diverse». Sebbene una maggiore trasparenza sia emersa in tempi recenti anche a seguito di alcune iniziative dell’amministrazione parlamentare (si pensi all’obbligo del deposito del contratto di lavoro per il rilascio al collaboratore del pass di accesso ai palazzi e all’introduzione dell’obbligo di rendicontazione, almeno parziale, delle spese per collaboratori), «dati complessivi o statistiche ufficiali non sono tuttavia rinvenibili, né dai gruppi parlamentari, né dagli Uffici di camera e senato che, come rilevato, non li pubblicano, né rendono informazioni in merito, nemmeno anonime».

Così temerario eppure valente è il rapporto Irpa: unendo all’analisi dei bilanci dei partiti e delle banche dati delle Camere un sondaggio a campione tra i collaboratori parlamentari, esso da un lato introduce un oggetto nuovo della ricerca scientifica – il pur non recente fenomeno della collaborazione parlamentare ed i problemi che esso solleva; dall’altro, stigmatizza l’«allarmante» opacità, se non addirittura mancanza, delle informazioni disponibili in merito allo stesso fenomeno, giungendo a denunciare l’abuso di forme giuridiche caratterizzanti il rapporto di lavoro tra parlamentare e collaboratore da parte di un legislatore in perenne conflitto di interesse. In questo senso, infatti, dall’indagine si evince che, «pur usufruendo in via principale ed esclusiva dei servizi di tale categoria di lavoratori, gli eletti hanno il potere di decidere i profili materiali più rilevanti in ordine al fenomeno, vale a dire quelli finanziari (lo stanziamento di risorse pubbliche nei bilanci di Camera e Senato) e organizzativi (quali, il regime giuridico, il numero e i controlli)». Non sorprende allora la distanza dal livello europeo e dei principali Stati membri dove il contraente nel rapporto di lavoro è sempre l’amministrazione parlamentare, che riceve le richieste dei suoi appartenenti, conclude e gestisce i contratti secondo le indicazioni ricevute (senza pregiudizio per la natura fiduciaria del rapporto), ed assicura altresì uno standard minimo di trasparenza e conoscibilità di destinazione collegato all’impiego di risorse pubbliche: vale a dire, l’indicazione in bilancio del numero preciso dei contratti depositati e del volume complessivo di spesa.

Diversamente, nel nostro Paese, nonostante le spese per i collaboratori parlamentari siano in crescita, in tale ambito perdurante è l’assenza di una regolamentazione così come, conseguentemente, la trasparenza nella gestione delle risorse pubbliche. Ciò rischia di generare il paradosso del venir meno di tutti quegli elementi di certezza di diritti e doveri, previsti dalla legislazione vigente in materia di lavoro, proprio nella più autorevole delle sedi istituzionali quale il Parlamento. E se diffuso e sistematico è l’impiego delle forme di collaborazione a progetto e coordinata e continuativa per un rapporto di lavoro svolto prevalentemente in condizioni di subordinazione, ciò dipende proprio dalla mancanza di una disciplina organica ed effettiva della materia che, costruita sulla base di dati ufficiali circa la natura, le dimensioni e le caratteristiche del fenomeno, senza necessariamente prescindere da decisioni concernenti il finanziamento alla politica, possa scongiurare l’esposizione dei collaboratori parlamentari italiani ad abusi, malversazioni e pratiche di patronage.