Il c.d. “Decreto Sicurezza” (decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113, convertito, con modificazioni, dalla legge 1° dicembre 2018, n. 132) ha modificato la disciplina della concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari. In assenza di una norma volta a disciplinare l’eventuale applicazione della normativa sopravvenuta ai casi di domande già presentate antecedentemente all’entrata in vigore delle nuove disposizioni, quali previsioni si applicano? Con l’ordinanza n. 11750/2019 dello scorso 3 maggio, la prima sezione della Corte di Cassazione ha rimesso la questione alle Sezioni Unite, chiedendo loro di dirimere il contrasto giurisprudenziale emergente sul punto. Il collegio rimettente non ha infatti condiviso il principio di diritto elaborato al riguardo in una precedente sentenza (n. 4890 del 3 gennaio 2019), con la quale si era espressamente affermato che la nuova disciplina non trova applicazione in relazione a domande di riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposte prima dell’entrata in vigore della nuova legge (ovvero, il 5 ottobre 2018).
Il collegio rimettente ha osservato, al riguardo, che in presenza di una legge sopravvenuta di diritto sostanziale che regola la fattispecie contenziosa, entrata in vigore in pendenza di un procedimento amministrativo e giurisdizionale, il giudice, per poterla applicare, non è chiamato a verificare l’esistenza nella nuova legge di una disposizione speciale che ne preveda (o ne consenta) l’immediata applicazione, divenendo leggi e regolamenti obbligatori dalla loro entrata in vigore, salva espressa norma di segno contrario. Nell’ordinanza, la Corte si sofferma diffusamente sulle argomentazioni sviluppate nella precedente pronuncia del gennaio 2019, confutandone le tesi anche in punto di immanenza del diritto al riconoscimento della protezione umanitaria.
Nella medesima ordinanza, la Corte ha rimesso al Primo Presidente un’ulteriore questione relativa ai parametri normativi della protezione per motivi umanitari, per come enucleati in una pronuncia della medesima Cassazione (n. 4455/2018). Secondo quest’ultima, il permesso può essere riconosciuto al cittadino straniero che abbia realizzato un adeguato grado di integrazione sociale in Italia; al riguardo, occorre fondarsi su un’effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza. A giudizio della Corte, tale principio si espone a dubbi e incertezze interpretative che non ne favoriscono un’agevole applicazione giurisprudenziale, con l’effetto di alimentare il contenzioso, specie sotto i profili della integrazione e dell’inserimento sociale nel territorio nazionale e della caratterizzazione del rischio di rimpatrio nei Paesi di origine.