La sentenza del Tribunale dell’Unione europea sul caso Tercas/Fondo Interbancario di tutela dei depositi

Attesa da lungo tempo e salutata con favore dalle autorità di vigilanza italiane e dalle voci dell’industria bancaria nazionale, la sentenza del 19 marzo scorso con la quale il Tribunale dell’Unione europea ha annullato la decisione (UE) 2016/1208 della Commissione, del 23 dicembre 2015, relativa all’aiuto di Stato SA.39451 (2015/C) (ex 2015/NN) cui l’Italia ha dato esecuzione a favore di Banca Tercas, è destinata a segnare un punto di svolta nell’interpretazione delle regole in materia di aiuti di Stato da parte delle autorità europee. La decisione è stata assunta nelle cause riunite T-98/16, T-196/16 e T-198/16, incardinate rispettivamente dalla Repubblica Italiana, dalla Banca Popolare di Bari e dal Fondo interbancario di tutela dei depositi sostenuto dalla Banca d’Italia, contro la Commissione europea.

I fatti sono noti.

Nella prima metà del 2012, il MEF ha sottoposto Tercas ad amministrazione straordinaria su proposta della Banca d’Italia, che aveva rilevato irregolarità nella gestione della banca. Nell’ottobre 2013, il commissario straordinario incaricato della procedura ha avviato trattativa con la Banca Popolare di Bari, istituto che aveva manifestato interesse a sottoscrivere un aumento di capitale di Tercas, a condizione che fosse eseguita una due diligence sulla Tercas e che il Fondo interbancario di tutela dei depositi coprisse interamente il deficit patrimoniale della banca stessa. Lo stesso mese, il comitato di gestione del Fondo ha deciso di intervenire a sostegno di Tercas per un importo massimo di EUR 280 milioni. Il 29 ottobre 2013 il consiglio del Fondo ha ratificato detta decisione. Il 4 novembre 2013, conformemente all’articolo 96-ter, primo comma, lettera d), del Testo unico bancario, la Banca d’Italia ha approvato tale intervento di sostegno. A seguito di una sospensione della procedura e a una nuova valutazione degli attivi di Tercas, nel luglio 2014 il Fondo ha trasmesso alla Banca d’Italia una nuova richiesta di autorizzazione. Tale autorizzazione è stata concessa dall’autorità italiana pochi giorni dopo: l’intervento previsto prevedeva tre misure, ovvero in primo luogo, un contributo di EUR 265 milioni a copertura del deficit patrimoniale di Tercas; in secondo luogo, una garanzia di EUR 35 milioni a copertura del rischio di credito associato a determinate esposizioni di Tercas; in terzo luogo, una garanzia di EUR 30 milioni a copertura dei costi derivanti dal trattamento fiscale della prima misura. L’accordo sull’operazione ha consentito di procedere alla ricapitalizzazione dell’intermediario e alla cessazione del regime di amministrazione straordinaria di Tercas.

A seguito di richieste di informazioni alle autorità italiane effettuate tra l’agosto e l’ottobre 2014, la Commissione ha informato l’Italia della propria decisione di avviare un procedimento ex art. 108, paragrafo 2, TFUE, con riguardo alle tre misure descritte. Con la decisione finale del 23 dicembre 2015, la Commissione ha constatato che tali misure costituivano aiuti incompatibili e illegittimi concessi dalla Repubblica italiana a Tercas e ha disposto che detti aiuti fossero recuperati. A tal riguardo, la Commissione ha considerato che la prima misura, destinata a coprire il deficit patrimoniale di Tercas, era un contributo a fondo perduto di EUR 265 milioni, che la seconda misura, una garanzia di EUR 35 milioni a copertura del rischio di credito associato a determinate esposizioni, doveva essere valutato pari a EUR 140 000 per tener conto, segnatamente, del fatto che tali esposizioni erano state integralmente rimborsate dai debitori alla scadenza e che pertanto la garanzia non era stata escussa, e che la terza misura, una garanzia di EUR 30 milioni a copertura dei costi derivanti dal trattamento fiscale della prima misura, era un contributo a fondo perduto pari all’importo della garanzia.

Nella propria motivazione, il Tribunale ripercorre gli argomenti delle parti riguardanti il criterio di aiuti configurati come concessi dagli Stati, ovvero mediante risorse statali. Secondo la giurisprudenza europea, la qualifica di «aiuto di Stato» ai sensi dell’articolo 107, paragrafo 1, TFUE presuppone che ricorrano quattro condizioni, ovvero che sussista un intervento dello Stato o mediante risorse statali, che tale intervento possa incidere sugli scambi tra gli Stati membri, che esso conceda un vantaggio selettivo al suo beneficiario e che falsi o minacci di falsare la concorrenza. La corte evidenzia che tra gli elementi obiettivi che devono essere considerati nell’interpretare la nozione di aiuto di Stato occorre anche considerare la natura pubblica o privata dell’ente che ha concesso l’aiuto; sul punto, la corte osserva che qualora l’ente sia dotato di uno status privato o un’autonomia, incluso quanto alla gestione dei suoi fondi, rispetto agli interventi dei pubblici poteri e delle finanze pubbliche, in senso stretto, la Commissione è soggetta, sotto il completo controllo del giudice dell’Unione, a un obbligo ancora più significativo di precisare e motivare le ragioni che le consentono di concludere nel senso di un controllo pubblico sulle risorse utilizzate e dell’imputabilità delle misure allo Stato e, di conseguenza, dell’esistenza di un aiuto ai sensi dell’articolo 107, paragrafo 1, TFUE. In particolare, prosegue la corte, nel caso in cui la misura sia corrisposta da un ente privato non è possibile presumere che lo Stato sia in grado di controllare tale impresa e di esercitare un’influenza dominante sulle sue operazioni, a motivo del vincolo di capitale e delle prerogative ad esso correlate. Spetta dunque alla Commissione provare, in modo giuridicamente adeguato, un sufficiente grado di coinvolgimento dello Stato nella concessione della misura in oggetto, dimostrando non solo che lo Stato ha la possibilità di esercitare un’influenza dominante sull’ente erogatore ma, altresì, che esso era in grado di esercitare tale controllo nel caso concreto.

Il Tribunale afferma quindi che, contrariamente a quanto sostenuto dalla Commissione nella decisione impugnata, gli interventi di sostegno del Fondo mirano principalmente a perseguire gli interessi privati delle banche che ne sono membri. Gli interventi di sostegno mirano innanzitutto a evitare le conseguenze economiche più onerose di un rimborso dei depositi in caso di liquidazione coatta amministrativa. Tali elementi si desumono anche dallo statuto del Fondo, dove gli interventi di sostegno sono subordinati all’esistenza di prospettive di risanamento della banca in difficoltà che beneficia dell’intervento e alla circostanza che essi devono costituire un onere finanziario meno oneroso per le banche consorziate rispetto all’attuazione dell’obbligo legale di rimborso dei depositi. La corte osserva che se è vero che gli interessi privati delle banche consorziate possono coincidere con l’interesse pubblico, dalla giurisprudenza emerge che il fatto che, in certi casi, gli obiettivi di interesse generale concordino con l’interesse degli enti privati – quali un consorzio di diritto privato, come nella fattispecie – non fornisce, di per sé solo, alcuna indicazione circa l’eventuale coinvolgimento o assenza di coinvolgimento dei poteri pubblici, in un modo oppure in un altro, nell’adozione della misura di cui trattasi. Sul punto la Corte conclude quindi che gli interventi di sostegno oggetto della decisione impugnata della Commissione hanno una finalità diversa da quella dei rimborsi dei depositi in caso di liquidazione coatta amministrativa e non costituiscono l’esecuzione di un mandato pubblico.

Il Tribunale si sofferma quindi sul ruolo della Banca d’Italia nella governance del Fondo. Al riguardo, i giudici europei osservano come la Commissione non abbia dimostrato che le autorità italiane avessero esercitato un controllo pubblico sostanziale nella definizione dell’intervento del FITD a favore di Tercas. Al contrario, è giocoforza constatare che la Commissione non ha dimostrato, in modo giuridicamente sufficiente, il coinvolgimento delle autorità pubbliche italiane nell’adozione della misura in questione né, di conseguenza, l’imputabilità di tale misura allo Stato ai sensi dell’articolo 107, paragrafo 1, del TFUE.

Quanto alla nozione di intervento “mediante risorse statali” il Tribunale riconosce che il mandato pubblico conferito ai vari sistemi di garanzia dei depositi in Italia impone solo l’attuazione di un sistema che consenta il rimborso dei depositi dei depositanti in caso di dissesto di un ente creditizio. Tale mandato pubblico non prevede, tuttavia, che detti sistemi debbano intervenire anche a monte prima che si verifichi un siffatto dissesto chiedendo ai loro membri le risorse necessarie. In breve, in nessun momento la Commissione è stata in grado di dimostrare che la Banca d’Italia, attraverso il suo controllo formale di regolarità, abbia cercato d’indirizzare le risorse private messe a disposizione del Fondo.

In conclusione, il Tribunale ritiene che la Commissione non ha sufficientemente dimostrato, nella decisione impugnata, che le risorse di cui trattasi fossero controllate dalle autorità pubbliche italiane e che esse fossero di conseguenza a disposizione di queste ultime. La Commissione non poteva quindi concludere che, nonostante il fatto che l’intervento del Fondo a favore di Tercas sia stato effettuato in conformità allo statuto di tale consorzio e nell’interesse dei suoi membri, utilizzando fondi esclusivamente privati, sarebbero in realtà le autorità pubbliche che, attraverso l’esercizio di un’influenza dominante sul Fondo, avrebbero deciso di indirizzare l’uso di tali risorse per finanziare un siffatto intervento.