Platform economy, il Report di Chatam House rivela cinque modelli di Internet sovereignty

La platform revolution ha inciso sui tradizionali canali e modalità di comunicazione e scambio, esigenza di regolazione del fenomeno. Per comprendere ed identificare, dunque, i differenti modelli di regolazione adottati su scala mondiale, il Royal Institute of International Affairs (cd. “Chatam House”) ha elaborato e pubblicato lo scorso gennaio un Report di ricerca che costituisce la sintesi di un’approfondita disamina, condotta a livello mondiale, su 55 leggi e proposte legislative aventi ad oggetto la regolamentazione degli aspetti più cruciali delle piattaforme, la moderazione dei contenuti nonché la responsabilità dei service provider. 

 

 

Nel corso dell’ultimo ventennio, la diffusione della rete e dei servizi di comunicazione ICT ha innescato una vera e propria platform revolution, consentendo l’emersione di numerose piattaforme digitali, capaci di sostituire i tradizionali canali di comunicazione e scambio ed esercitare una sempre maggiore influenza sulla vita di larga parte della popolazione mondiale (si veda su questo osservatorio F. Caporale, L’Europa si interroga: quali responsabilità per quali piattaforme digitali?) 

Per un verso, dunque, le piattaforme digitali amplificano le dinamiche ed i perimetri di mercato; per altro verso, invece, offrono nuovi strumenti per manifestare il proprio pensiero, tutelare i propri diritti e condividere questioni sensibili di rilevanza comune (ad esempio, la tutela ambientale). 

 

L’innovazione tecnologica ha inciso, altresì, sulla modernizzazione della regulation. Infatti, mentre i primi tentativi regolatori, fondati sull’idea della rete come spazio libero, miravano allo sviluppo delle emergenti attività digitali attraverso una regolazione minima, volta a tutelare e promuovere la libertà d’impresa e di comunicazione, l’attuale intrusività delle piattaforme digitali nel tessuto socio – economico è piuttosto percepita come una fuga dalla regolazione, a cui corrisponde un rinnovato impegno dei legislatori nazionali per contenere i rischi.  

 

L’esigenza di limitare la disinformazione, la diffusione contenuti illegali e di fronteggiare le nuove minacce per la tutela dei dati personali, del diritto d’autore e della proprietà industriale hanno così stimolato un rinnovato approccio regolatorio.  

La sovranità digitale si propone come nuovo obiettivo fondamentale, dopo decenni di profonda inerzia, per regolamentare e dirigere più attivamente le piattaforme digitali nel tentativo di affrontare il problema danni percepiti e rafforzare la supervisione e il controllo statale. 

 

Ciononostante, attualmente si registra una significativa diversità tra i paesi nei loro approcci alla regolamentazione delle piattaforme, difettando un quadro normativo ben definito o best practice affermate.  

 

Per comprendere ed identificare, dunque, i differenti modelli regolatori adottati su scala mondiale, il Royal Institute of International Affairs (cd. “Chatam House”) ha elaborato e pubblicato lo scorso gennaio il Documento di ricerca “Towards a global approach to digital platform regulation. Preserving openness amid the push for Internet sovereignty”.  

 

Il Report affronta l’evolutivo fenomeno della Sovranità Digitale, soffermandosi su una delle più compiute manifestazioni dell’incidenza tecnologica, costituita dal Governo delle piattaforme.  

Esso costituisce la sintesi di un’approfondita disamina, condotta a livello mondiale, su 55 leggi e proposte legislative aventi ad oggetto la regolamentazione degli aspetti più cruciali delle piattaforme, la moderazione dei contenuti nonché la responsabilità dei service provider. I ricercatori hanno condotto una mappatura iniziale delle leggi e delle proposte che avrebbero potuto potenzialmente entrare in vigore a partire dall’ottobre 2022, identificando così 137 leggi e proposte in 95 giurisdizioni, salvo poi ridurre il nucleo rilevante a 55.  

 

Uno degli aspetti più rilevanti della ricerca consiste nel clusterizzare le singole iniziative sulla base dei rispettivi tratti comuni e distintivi, piuttosto che analizzarle in base alla lingua o alla prossimità territoriale. A tal fine, i ricercatori hanno predisposto 29 parametri analitici elencati nell’Appendice 1, sulla cui base sono stati enucleati cinque modelli. 

   

Il primo gruppo è composto da dieci paesi che adottano un approccio di “Strict custody” (Bangladesh, Malawi, Mali, Nuova Zelanda, Nigeria, Filippine, Singapore, Corea del Sud, Siria e Tanzania). L’approccio regolatorio di questo gruppo si caratterizza per un forte potere di controllo. Infatti, alle piattaforme viene richiesto di rimuovere o gestire contenuti che non siano illegali, e sono previste pene detentive per i dipendenti della piattaforma per mancato rispetto dei contenuti requisiti o ordini di moderazione. 

 

Nove paesi, invece, rispondono ad un secondo modello denominato “Indipendent regulation”. In tali casi, uno degli elementi caratterizzanti consiste nell’istituzione di una autorità di regolazione indipendente, allo scopo di favorire le libertà individuali attraverso strumenti di vigilanza e controllo proporzionati al tipo di attività e di piattaforma. 

 

Il terzo gruppo rappresenta quasi la metà degli ordinamenti oggetto di analisi (ben 17 su 55), e si basa su un approccio “User right and capacities”. Lo studio ha esaminato quattro strumenti comunemente utilizzati, quali i meccanismi di ricorso, il reporting sulla trasparenza, procedure di reclamo e termini di servizio. I ricercatori ricomprendono in tale gruppo l’attuale normativa europea di cui al Regolamento (UE) 2022/2065 del Parlamento europeo e del Consiglio del 19 ottobre 2022 relativo a un mercato unico dei servizi digitali e che modifica la direttiva 2000/31/CE («Regolamento sui servizi digitali» – Digital Services Act). 

 

Cinque regimi di quattro paesi hanno esemplificato un approccio alla moderazione dei contenuti (“Extensive platform monitoring”), sottolineando il rafforzamento del monitoraggio e controllo dei contenuti delle piattaforme. 

 

Infine, cinque regimi di quattro paesi sono stati distinti facendo esplicito riferimento ai dati localizzazione come parte del loro approccio alla moderazione dei contenuti (“Data localization as part of content moderation regulation”). 

 

Nel valutare i modelli regolatori e le declinazioni della Sovranità Digitale, il documento delinea inoltre possibili percorsi per il futuro della regolamentazione delle piattaforme, compresi quelli dei principali centri digitali dell’UE, della Cina, del Regno Unito e degli Stati Uniti. 

Com’è noto, e come anche evidenziato dalla Commissione europea nella “Digital Strategy” l’offerta tecnologica statunitense rimane la forza dominante nel plasmare il quadro normativo globale; parimenti, anche la Cina supera l’Unione nell’offrire un set completo di tecnologie digitali, completo di standard e infrastrutture, ai paesi in via di sviluppo che cercano digitalizzare al ritmo giusto. 

 

Alla luce del complesso reticolato geo – politico, lo studio discute le questioni relative alla creazione di quadri globali e il potenziale ruolo per i diritti umani.  

Il documento si conclude, proponendo raccomandazioni su come i politici possono compiere progressi verso l’allineamento sulla regolamentazione delle piattaforme e preservare l’Internet aperta e globale, sebbene risulti al contempo considerare rilevanti fattori connessi alla sicurezza nazionale, all’influenza delle aziende tecnologiche e la politica interna. 

 

In conclusione, il Report offre l’occasione per valutare gli andamenti regolatori del capitalismo delle piattaforme.  

Peraltro, i risultati riportati per il modello europeo “User right and capacities” sembrano allinearsi alle osservazioni condivise dall’Agcom in occasione della piena entrata in vigore del Regolamento sui servizi digitali: com’è noto, la normativa sui servizi digitali si applica a tutti i fornitori di servizi intermediaria partire dal 17 febbraio 2024. Secondo l’Autorità, infatti, il Digital Services Act “ha introdotto nell’ordinamento europeo delle norme volte a garantire un ambiente online sicuro, prevedibile e affidabile, in cui i diritti fondamentali degli utenti dei servizi digitali siano efficacemente tutelati e l’innovazione sia agevolata, contrastando la diffusione di contenuti illegali online e i rischi per la società che la diffusione della disinformazione o di altri contenuti illeciti o nocivi può generare” (si veda su questo osservatorio A. Mattoscio, Digital Services Act: un “accordo storico”). Tali obiettivi risultano concretizzabili attraverso le numerose misure – ivi compresi i meccanismi di segnalazione e risoluzione alternativa delle controversie – previste per favorire la trasparenza della moderazione dei contenuti e dei sistemi di raccomandazione, dei termini e condizioni, della pubblicità online e dei divieti specifici nel caso di utilizzo di dati sensibili o di minori, nonché la tracciabilità degli operatori commerciali nei mercati online. 

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