Ma lo Stato quando riapre?

Nei mesi di marzo ed aprile 2020 la vita è cambiata. Per alcuni si è accelerata: i medici, gli infermieri, gli operatori sanitari hanno fatto sforzi inauditi per assicurare le cure e l’assistenza ai malati di Covid 19 (e non solo a loro) in condizioni difficilissime, arrivando in numerosi casi al sacrificio della vita. Per altri si è rallentata, ma è continuata in altro modo: utilizzando Internet siamo riusciti a fare lezioni, esami, sedute di laurea, riunioni e persino qualche udienza. Per altri ancora si è fermata: il commercio, il turismo, l’edilizia, gran parte dell’industria hanno dovuto chiudere l’attività, con tante persone rimaste senza lavoro e senza prospettiva che non sia quella degli ammortizzatori sociali, attivati peraltro con difficoltà e ritardi sui quali ancora oggi si tenta di intervenire senza grandi risultati.

Non appena è stato possibile allentare le misure di emergenza, il sistema produttivo ha cercato di ripartire. Dopo l’11 maggio è stato possibile andare dal parrucchiere e dal barbiere, comprare un cono gelato e assaporarlo passeggiando per le nostre città – le più belle del mondo – andare a pranzo in un ristorante appena riaperto, andare in banca, fare la spesa senza troppe file e contingentamenti, cominciare a programmare una gita o una cena fra amici.

Ci sono tante altre cose che invece non sono ancora possibili. Nelle università non è possibile andare in una biblioteca o un laboratorio, incontrare un laureando, fare gli esami o le lauree in presenza. Non è possibile fare le udienze nei tribunali. I bambini e i ragazzi non possono tornare a scuola. Ogni richiesta di servizi o decisioni ad una pubblica amministrazione ottiene la stessa risposta: siamo in smart working, abbiamo un accesso difficile e discontinuo alle informazioni, ai fascicoli, alle pratiche, ai dati e comunque i termini di tutti i procedimenti sono stati differiti. Fino a quando durerà lo smart working o, più esattamente, il funzionamento a scartamento ridotto dell’amministrazione e dei servizi pubblici? Non si sa. Si stanno organizzando per dare a tutti la connessione e costruire le piattaforme necessarie, per una vera amministrazione  digitale? Al di là di qualche roboante annuncio, non si vede un vero impegno a cambiare. Anzi, la tendenza è a prolungare questa situazione: non si sa se le scuole e le università riapriranno a settembre, quando riapriranno i tribunali, quando ci saranno i concorsi pubblici, quando sarà possibile avere risposte sulle istanze, le richieste di autorizzazione, di licenza, di parere obbligatorio, quando tutto il complesso strumentario del sistema amministrativo si rimetterà in moto.

Naturalmente ci sono uffici pubblici che lavorano a tempo pieno (oltre alla sanità pubblica, che non si è mai fermata). Le forze dell’ordine, ad esempio, impegnate in controlli capillari sul territorio. Gli uffici legislativi, che producono norme a getto continuo. Gli uffici finanziari e statistici, occupati a raccogliere, ordinare e valutare una mole enorme di dati ed informazioni.

Ma, nel suo complesso, lo Stato non ha riaperto e, soprattutto, non sembra avere un piano di riapertura, per quanto graduale e scadenzato nel tempo.

E’ chiaro a tutti, ad esempio, che le pur necessarie misure di sostegno sinora adottate sono a malapena sufficienti ad affrontare l’emergenza dei mesi passati. Quanto può durare – e costare – la cassa integrazione? E quanto si può andare avanti con bonus, contributi, prestiti, garanzie, se l’economia non riparte? E può ripartire l’economia se lo Stato non riapre e non riprende a svolgere tutte le sue funzioni?

Prendiamo solo due esempi: gli investimenti e la giustizia. Gli investimenti pubblici sono un elemento cruciale e imprescindibile della ripresa economica, senza il quale è difficile immaginare che la perdita di posti di lavoro causata dal lockdown verrà superata. Oggi quegli investimenti incontrano molti meno vincoli rispetto a ieri, dato il nuovo quadro regolatorio europeo e c’è un generale consenso sulla necessità di realizzarli tempestivamente e con modalità innovative. Non serve a niente, però, raschiare il fondo del barile e tirare fuori dai cassetti progetti impolverati, sinora mai realizzati anche per evidenti carenze di progettazione o di fattibilità o perché invecchiati nell’attesa. Ancora meno serve vagheggiare deroghe ed eccezioni ad un sistema ordinario che non funziona, perché sulle deroghe e sulle eccezioni è impossibile costruire un sistema funzionante. Sarebbe necessario concentrare le competenze necessarie in un ufficio centrale, che faccia un veloce esame di quel che c’è e soprattutto programmi rapidamente quel che non c’è: progetti di investimento nuovi, moderni, che tengano conto delle nuove tecnologie, dei nuovi modi di costruzione e di produzione, con processi di decisione adeguati ai tempi moderni e sistemi di controlli orientati al risultato e non al formalismo barocco. Un ufficio centrale non è necessariamente un ufficio statale e può accogliere tecnici ed esperti delle regioni e delle autonomie locali, in modo che tutti i soggetti pubblici esercitino le loro competenze per fare, invece che per interdire, ridando alla cultura tecnica e professionale la centralità che essa deve avere in ogni amministrazione efficiente. Quanti miliardi di euro lo Stato pensa di essere in grado di spendere – spendere, non prevedere in bilancio – nei prossimi due anni? In quali settori? Con quali ricadute occupazionali? Con quali processi decisionali? Quante scuole vanno costruite per far tornare tutti a scuola il prima possibile? Quanti edifici pubblici vanno ristrutturati per renderli agibili e sicuri? Quante prigioni vanno costruite per assicurare la dignità della pena, che oggi è clamorosamente negata? Il Cipe è pronto ad operare in seduta permanente, invece di fungere da tappo del sistema? Gli uffici e le autorità di controllo sono pronti a partecipare alla costruzione di un sistema nuovo e a rinunciare alle rendite di posizione del sistema inefficiente nel quale oggi tutti siamo immersi?

Veniamo alla giustizia. Si tratta di una funzione senza la quale non esiste lo Stato democratico. Eppure la giustizia è ferma, i tribunali sono chiusi, le udienze vengono differite, le regole del processo diventano sempre più evanescenti. Il ricorso alla tecnologia per svolgere anche le udienze da remoto è utilizzato largamente e abbastanza efficientemente dalla giustizia amministrativa, con esiti assai meno soddisfacenti dalla giustizia civile e penale. In ogni caso, non è la soluzione del problema, ma solo un rimedio di emergenza: il contraddittorio, che è l’elemento senza il quale non è neanche possibile immaginare il processo, non può svolgersi da remoto se non per breve tempo e per casi particolari, non certo in via ordinaria. Le ragioni per cui i tribunali non riaprono sono tante, alcune oggettive, altre meno nobili – non si può chiedere ai medici di rischiare la vita curando i malati di coronavirus e pensare che giudici e altro personale pubblico possano rimanere a casa fino a che non sussiste più alcun rischio – e andrebbero anch’esse affrontate subito e sistematicamente. Se c’è un problema di edilizia giudiziaria, si dovrebbe decidere quanti e quali tribunali vanno costruiti o resi funzionali. Se c’è un problema di spazi, si dovrebbe verificare la disponibilità di strutture pubbliche o private o almeno temporaneamente predisporre strutture provvisorie. Se c’è un problema di sicurezza, si dovrebbero stabilire i protocolli e attuarli celermente, Dopotutto è proprio la magistratura a vigilare sul rispetto delle regole da parte di tutti i cittadini, sarà certo capace di applicare pienamente quelle regole anche a se stessa e ai suoi luoghi di lavoro. Davvero lo Stato può accettare che ripartano gli stabilimenti balneari e non i tribunali? Che si possa fare il bagno in mare, ma non ottenere giustizia?

I settori produttivi del paese stanno ripartendo, pur tra mille difficoltà, con costi, oneri e rischi che solo ieri erano impensabili. Le imprese, i cantieri, i negozi, i commercianti, gli artigiani, non hanno scelta: se non ripartono, periscono. Le amministrazioni pubbliche – i cui dipendenti godono oggi della piena garanzia del posto di lavoro e dello stipendio, a differenza dei lavoratori nel settore privato – sembrano invece adottare, come unica misura, il differimento, in attesa di tempi migliori. Ma i tempi non migliorano da soli e se lo Stato non riapre è facile prevedere che la fiducia e la pazienza con le quali la comunità si è sottoposta al lockdown si trasformeranno presto in sfiducia e rabbia.