La nuova via della seta e non solo: l’UE, l’Italia e la sfida cinese

Secondo l’esperto di relazioni internazionali Parag Khanna non ci sono dubbi: il futuro è asiatico. Nel suo ultimo libro (Il secolo asiatico?) l’autore sostiene che nel 2017, anno in cui si è tenuto il primo forum sulla Belt and Road Initiative (BRI), siano state poste le basi per un nuovo ordine globale, nel quale i paesi asiatici, e non solo la Cina, avranno un ruolo centrale.

 

 

 

 

L’affermazione della Cina come seconda potenza economica mondiale – o addirittura prima, se si guarda al PIL in termini di parità di potere d’acquisto (purchasing power parity – PPP) – e l’adozione di una strategia geoeconomica particolarmente aggressiva da parte di Pechino impongono una riflessione sulle politiche dell’Unione Europea. Se da un lato, infatti, è impensabile non fare affari con la Cina (l’interscambio commerciale tra questo Paese e l’UE vale più di un 1 miliardo di euro al giorno), dall’altro occorre fronteggiare i possibili rischi legati all’avanzata cinese.

 

 

 

Partiamo dalla BRI.

La Belt and Road Initiative o, per i più romantici, la “Nuova via della seta” è un colossale progetto infrastrutturale lanciato nel 2013 dal Presidente della Repubblica Popolare Cinese Xi Jinping e finalizzato a migliorare la connettività e la cooperazione commerciale tra i paesi aderenti. Porti, aeroporti, strade, ferrovie. Secondo i dati della Banca Mondiale, l’iniziativa dovrebbe coinvolgere più di 65 paesi, il 62% della popolazione globale e il 30% del PIL mondiale [1].

L’opinione più diffusa è quella per la quale la BRI non sarebbe un’iniziativa meramente commerciale e che per mezzo di essa, in realtà, la Cina mirerebbe alla conquista di una posizione egemonica nella scena globale. Un progetto, dunque, dalle chiare tinte geopolitiche.

Tra i rischi che vengono associati all’iniziativa cinese ci sono soprattutto quelli legati a logiche di investimento predatorie e alle minacce per la sicurezza derivanti dall’accesso a infrastrutture strategiche.

Non sorprende, allora, l’acceso dibattito suscitato dalla firma, nello scorzo marzo, di un memorandum d’intesa tra Italia e Cina, avente ad oggetto proprio la BRI. Sebbene si tratti di un documento non vincolante e dai contenuti assai vaghi, la firma italiana ha un evidente valore simbolico (l’Italia è l’unico paese fondatore dell’UE e membro del G7 ad aver sottoscritto un documento del genere). La decisione è stata accolta con preoccupazione da parte degli Stati Uniti, impegnati in uno scontro commerciale con la Cina che non pare trovare tregua, e anche a Bruxelles è prevalso lo scetticismo.

Nelle intenzioni del Governo italiano l’intesa potrebbe contribuire a riequilibrare la bilancia commerciale, che al momento pende inesorabilmente a favore della Cina. Infatti, i dati relativi al 2018 ci dicono che l’export italiano in Cina vale poco più di 13 miliardi di euro (siamo dietro Germania, Regno Unito e Francia), mentre le importazioni ammontano a circa 30 miliardi.

 

 

 

 

 

 

 

Allo stesso tempo, si vorrebbero favorire gli investimenti diretti provenienti dalla Cina, per i quali l’Italia, pur senza sfigurare, non raggiunge i numeri di Regno Unito e Germania.

L’interesse italiano per l’iniziativa di Pechino non è una novità: nel 2017 l’allora Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni fu l’unico capo di governo del G7 a partecipare al primo forum sulla BRI.

E gli altri?

Prima dell’Italia, già altri 13 stati dell’UE (Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Grecia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Portogallo, Slovacchia e Slovenia) avevano sottoscritto un memorandum di questo tipo. Ma le principali economie europee – Francia, Germania e Regno Unito su tutte – non paiono avvertirne la necessità, pur continuando a fare affari miliardari con la Cina.

 

Se questo è il quadro, non va trascurata l’importanza di una strategia comune dell’UE di fronte a un progetto, qual è la BRI, che nasconde non poche insidie e rispetto al quale è necessario assicurare la reciprocità dei vantaggi. Le relazioni con Pechino si presentano assai complesse per una serie di motivi sufficientemente noti: le restrizioni all’accesso ai mercati cinesi, la mancanza di trasparenza, un’economia dirigista e, non per ultime, le preoccupazioni riguardanti i diritti umani. Rispetto a tali questioni, la mancanza di un fronte comune rischia solo di indebolire la forza negoziale dell’UE, alla quale, del resto, è attribuita la competenza esclusiva in materia di politica commerciale comune.

Oltre a ciò, l’ascesa dell’economia cinese sta mettendo in discussione le politiche europee in materia di concorrenza. I malumori suscitati dall’opposizione della Commissione Europea, nel febbraio scorso, alla fusione tra i due colossi dell’industria ferroviaria, la francese Alstom e la tedesca Siemens, che avrebbe portato alla nascita di un “campione europeo”, sono sintomo di un’evidente insofferenza nei confronti dell’attuale assetto delle politiche antitrust. Il timore è che le imprese europee siano destinate a soccombere di fronte a rivali (quali gli operatori cinesi) che operano in mercati protetti e che godono di sostanziosi aiuti pubblici.

A pochi giorni dallo stop della Commissione, i Ministri dell’Economia di Francia e Germania hanno presentato un Manifesto (A Franco-German Manifesto for a European industrial policy fit for the 21st Century, disponibile qui) in cui, tra le altre cose, si propone una radicale revisione delle regole sulla concorrenza che tenga conto della dimensione globale dei mercati. Nel documento ci si spinge fino a proporre un right of appeal del Consiglio UE che consentirebbe di superare le decisioni della Commissione in casi specifici.

Al di là dell’osservazione per la quale già oggi sono consentite concentrazioni che possono contribuire ad accrescere la competitività dell’industria europea senza falsare le dinamiche concorrenziali, non pare che la strada da seguire possa essere quella di un abbandono delle politiche sulle quali è stata fondata la costruzione europea e che hanno concorso alla realizzazione del mercato interno. La competitività delle imprese europee, più che attraverso misure che restringono la concorrenza e che penalizzano i consumatori, andrebbe sostenuta per mezzo di una seria politica industriale. Non certo la vecchia politica industriale degli Stati nazionali, che sarebbe oggi in larga parte incompatibile con il diritto europeo, bensì quelle politiche previste dallo stesso TFUE (art. 173), mirate, appunto, a garantire condizioni generali favorevoli per la competitività industriale e che andrebbero attuate con maggiore decisione (ad esempio, sostegno a ricerca e innovazione).

Allo stesso tempo, occorre rafforzare a livello internazionale i meccanismi che assicurano il level playing field (la sede c’è ed è l’OMC, di cui la Cina fa parte dal 2001).

In tutto ciò, cosa stanno facendo le istituzioni europee?

In occasione del vertice UE-Cina del 9 aprile 2019 si è giunti a una dichiarazione congiunta nella quale è stata ribadita l’importanza di una partnership commerciale basata sulla trasparenza, sulla non discriminazione nell’accesso ai mercati e che assicuri l’effettiva reciprocità dei vantaggi. Tra i vari punti, spicca l’impegno a rafforzare le regole internazionali sui sussidi all’industria e a cooperare per l’adesione della Cina al Government Procurement Agreement nonché la volontà di creare sinergie tra la strategia europea sulla Connessione Europa-Asia e la BRI. Occorrerà adesso vedere se gli impegni saranno rispettati.

Nel frattempo, a marzo 2019 è stato approvato un Regolamento che istituisce un quadro per il controllo degli investimenti esteri diretti nell’UE [2], con l’obiettivo di bilanciare l’esigenza di accogliere i capitali esteri con quello di presidiare gli interessi generali relativi all’ordine pubblico e alla sicurezza.

Sul fronte delle politiche industriali, il 27 maggio 2019 il Consiglio UE ha adottato le conclusioni relative a “Una strategia di politica industriale dell’UE: una visione per il 2030”, in vista del compito affidato alla Commissione di presentare una strategia industriale di lungo termine entro la fine del 2019.

Per capire quale sarà il futuro dell’UE occorrerà ancora attendere. La sensazione è che le sfide che un contesto sempre più globalizzato e multipolare sta proponendo costituiranno un banco di prova fondamentale per la solidità dell’UE e per la sua capacità di adattarsi ai cambiamenti senza smarrire per strada la sua identità.

Per quanto riguarda l’Italia, la BRI rappresenta indubbiamente una grande opportunità, anche alla luce dell’interesse cinese per i porti italiani, la cui posizione strategica li rende il canale di accesso ideale al cuore dell’Europa e che potrebbero riacquistare centralità grazie all’iniziativa. Molto dipenderà, con ogni probabilità, dalla capacità di definire una strategia che miri a tutelare gli interessi nazionali senza trascurare la necessità di agire sulla base di regole condivise a livello europeo.

 

[1] Per approfondimenti sulla BRI si può vedere, ad esempio, Cina: le nuove “Vie della Seta”, Osservatorio di Politica Internazionale del Parlamento italiano – Approfondimento n. 140 (Ottobre 2018), a cura di G. B. Andornino, disponibile qui.

[2] Regolamento (UE) 2019/452 del Parlamento europeo e del Consiglio del 19 marzo 2019.