
Un esordiente Eugenio Scalfari, reduce dall’aspra battaglia contro il Piano Solo e contro il generale De Lorenzo (battaglia dalla quale era uscito perdente soprattutto per i tanti omissis interposti dai servizi segreti), debutta per la sua unica legislatura alla Camera dei deputati, dove è stato eletto coi voti socialisti. È il primo giorno di lavoro, si elegge presidente della Camera Sandro Pertini. Il suo racconto, un po’ sbalordito e un po’ indignato, descrive però com’era la Camera nel 1968. Oggi forse qualche servizio interno è migliorato: più comode e spaziose le aule delle commissioni, meno concitato il lavoro dei commessi, un ufficio a testa per tutti i deputati. Allora ci si doveva accontentare e far di necessità virtù. Descrivendo una sua visita a Washington, negli uffici del Senato americano, il parlamentare italiano non poteva però esimersi dal paragone tra le due istituzioni: ed era a tutto svantaggio della Camera italiana.
Il 5 giugno 1968 si aprì la quinta legislatura repubblicana e i 630 deputati entrarono a piccoli gruppi nell’immensa aula dell’assemblea, sormontata dall’orribile bassorilievo bronzeo dell’Italia tra re Arduino d’Ivrea e Vittorio Emanuele II a cavallo. Saluti, congratulazioni reciproche, crocchi attorno ai leader più prestigiosi (…). In aula si votava per eleggere il presidente. Fino a poche ore prima c’era stata qualche incertezza sul candidato ufficiale, pur essendo stabilito che sarebbe stato un socialista. Chi lo aveva stabilito? Lo chiesi per cercare di capire come funzionavano i meccanismi parlamentari. Mi fu risposto che c’era stata una trattativa tra le segreterie della Dc e del Partito socialista e che si era deciso di assegnare la presidenza del Senato a Fanfani e quella della Camera a Pertini. Poi i gruppi parlamentari dei due partiti erano stati convocati per la ratifica. Il presidente anziano aprì le votazioni. I 630 deputati sfilarono davanti all’urna, uno per uno. Pertini fu eletto con grandissima maggioranza. (…)
Il giorno dopo si riunirono le commissioni. Alla Camera ce ne sono 14, ciascuna ha competenza su un settore dell’amministrazione e ogni deputato fa parte di una di esse. In teoria la scelta dovrebbe avvenire con criteri di competenza, e talvolta è così. Altre volte no. (…) . Alcuni anni fa, nel corso di un viaggio a Washington visitai il palazzo del Senato degli Stati Uniti e rimasi ammirato dal modo come lavorano i senatori americani. Ogni senatore ha il suo ufficio, la sua segreteria, i suoi strumenti d’indagine, i suoi schedari. Le commissioni del Senato sono potentissime. Quella finanziaria, per esempio, convoca regolarmente una volta alla settimana il presidente del “Board of Governors” della “Federal Reserve” (…). La Commissione Difesa convoca ogni volta che lo ritiene opportuno il capo degli stati maggiori e i singoli comandanti di grandi unità. Quella degli Esteri ascolta gli ambasciatori e, se necessario, il capo della Cia, cioè dei servizi segreti. Nessuno degli alti funzionari può sottrarsi a questi ‘inviti’. Spesso le sedute sono trasmesse in televisione e gli interrogatori si svolgono sotto gli occhi di tutta l’America.
Sapevo già naturalmente che a Montecitorio non c’era niente di simile. Ma pensavo tuttavia che qualcosa, un velo di strutture funzionali, esistesse e che un certo lavoro si potesse fare. Mi confortava il fatto che i funzionari della Camera sono quanto di meglio e di più preparato si possa trovare nell’ambito della pubblica amministrazione. Fui assegnato su mia richiesta alla commissione Bilancio e Programmazione, in un certo senso la più importante di tutte (…). La sala della commissione era affollata in quella prima riunione. Eravamo una quarantina. Sala grande, tavolo a ferro di cavallo. È in un corridoio al quarto piano del palazzo. Accanto c’è la stanza del funzionario addetto alla commissione, poi una più piccola per tre impiegati, poi lo studio del presidente. Domandai se c’erano stanze o tavoli per i commissari, ma mi fu risposto di no.
- Scalfari, Processo all’onorevole, in “L’Espresso”, 9 febbraio 1969.