Digital Tax: l’Europa, gli USA e l’economia digitale. Quali le prospettive future?

La situazione relativa al tema Digital Tax ed economia globale, a inizio 2021, non pare meno interlocutoria rispetto all’analogo periodo del 2020, con in più l’ulteriore circostanza “aggravante” della crisi dovuta al Covid-19, la quale ha aumentato notevolmente il fabbisogno di risorse finanziarie ed ha reso ancor più impellente per gli Stati addivenire ad una soluzione che consenta una fair taxation dell’economia digitale. Nell’attesa che l’OCSE arrivi ad una soluzione condivisa, prevista per il prossimo anno, l’Italia, come la Francia (ma anche Gran Bretagna, Spagna, Germania, Ungheria) ha deciso di pensare ad una soluzione “locale”.

Con Digital Tax si indica la proposta di legge che mira, nell’era dell’economia digitale, alla regolamentazione della tassazione per le multinazionali che operano nella Rete, con l’obiettivo di assicurare equità fiscale e concorrenza leale. Si tratta, quindi, di una tassa indirizzata verso i “colossi mondiali del web” come Amazon, Google e Facebook.

Già nel marzo 2018, la Commissione europea aveva la cosiddetta “Web Tax”, applicabile sui ricavi da vendita di pubblicità, sulla cessione dati e sull’intermediazione tra utenti e business. L’obiettivo è che i big di internet rendano conto al fisco dei Paesi in cui producono profitti. Si tratta di una situazione temporanea, ma la Commissione sta vagliando anche soluzioni a lungo termine, per permettere agli Stati membri dell’UE “di tassare i profitti dove sono generati, anche se le aziende non hanno una presenza fisica nel loro territorio”.

Dopo due anni di rinvii, anche in Italia, dal 1° gennaio 2020, verrà applicata l’Imposta sui servizi digitali, introdotta dalla legge di bilancio 2019 e immediatamente esecutiva.

La previsione di una tassa nazionale deriva dall’impossibilità europea di giungere a un accordo condiviso a causa dell’opposizione di alcuni paesi, come Irlanda, Danimarca, Svezia e Finlandia.

Nell’attesa che l’OCSE arrivi ad una soluzione condivisa, prevista per il prossimo anno, l’Italia, come la Francia (ma anche Gran Bretagna, Spagna, Germania, Ungheria) ha deciso di pensare ad una soluzione “locale”.

Una differenza con la Digital Tax francese è la “sunset clause”, con cui si prevede che la disciplina dell’imposta sui servizi digitali è abrogata con decorrenza dal momento in cui entreranno in vigore disposizioni derivanti da accordi internazionali in materia di tassazione dell’economia digitale.

Dalla Web Tax ci si attende un gettito pari a circa 708 milioni di euro all’anno, ammontare che con ogni probabilità dovrà essere rivisto in ragione dei profondi mutamenti conseguenti all’effetto Covid-19.

Ad ogni modo, è fuor di dubbio che sinora il mancato accordo a livello internazionale è principalmente causato dalla non convinta adesione, sfociata a tratti in vera e propria opposizione, da parte degli Stati Uniti.

Lo scorso 6 gennaio il governo statunitense, ed in specie lo United States Trade Representative, ha rilasciato un report sulla Web Tax italiana, nel quale, ad esito di una lunga disamina, conclude che l’imposta italiana sarebbe i) discriminatoria nei confronti delle digital companies statunitensi, sia in ragione della selezione dei servizi imponibili, sia per le soglia minime di ricavi prevista ai fini della realizzazione del presupposto impositivo; ii) irragionevole in quanto non conforme ai principi della tassazione internazionale, sia in ragione della sua applicazione ai ricavi (in luogo del reddito) sia a causa della sua extraterritorialità e iii) porrebbe quindi gravami e restrizioni sul commercio statunitense.

È evidente quindi come tali valutazioni (espresse in maniera analoga anche con riferimento a Francia, India e Turchia) possano in via di principio legittimare politiche ritorsive da parte dell’amministrazione USA, in specie relativamente ai dazi doganali nei confronti dei predetti Paesi. Tuttavia, parrebbe che, in tale complessa fase della politica statunitense, il Rappresentante per il Commercio degli Stati Uniti abbia sospeso a tempo indeterminato l’azione di ritorsione commerciale contro la Francia, azione che prevedeva l’imposizione un onere del 25% sulle importazioni di merci.

In tale delicato gioco di politica in cui Biden si appresta ad entrare fattivamente si ritiene che avallare un accordo internazionale che preveda l’imposizione della Web Tax ai danni delle maggiori multinazionali del tech che si trovano negli USA, non sarebbe strategicamente la l’azione da intraprendere per prima, o quantomeno difficilmente nel 2021.

L’avvento dell’economia digitale, ovvero il sistema di produzione e scambio basato su tecnologie informatiche, ha portato ad importanti sfide dal punto di vista fiscale.

In un panorama globalizzato dell’economia mondiale, infatti, le regole fiscali tradizionali si sono trovate ad affrontare fenomeni di elevata mobilità dei contribuenti e del capitale, elevato numero di transazioni transfrontaliere e internazionalizzazione delle strutture finanziarie.

Anche l’Italia ha deciso, dunque, di optare per un sistema di tassazione “indipendente”, con la Digital Tax, in attesa che qualcosa si muova sul piano comunitario.

Occorre prestare attenzione e non pensare che l’economia digitale sia limitata unicamente a internet. Essa, infatti, comprende tutte le diverse tecnologie, sia hardware che software, sia online che offline: dai sistemi cloud al mobile, dall’Internet of Things ai Big Data, fino ai social network. Il fenomeno più importante è la sempre maggiore integrazione e ibridazione tra il digitale e l’economia tradizionale, i cui processi produttivi vengono trasformati e ottimizzati dalla tecnologia digitale.

Il recente report della Banca Centrale Europea (Bce) “The digital economy and the euro area” attesta che l’indice dell’economia e della società digitale è passato da meno di 40 nel 2015 a oltre 60 nel 2020.

Nonostante gli innegabili progressi degli ultimi anni, favoriti anche dalla pandemia da Covid-19 che ha favorito l’aumento nell’adozione delle tecnologie digitali, l’Italia ha ancora un preoccupante ritardo rispetto ai paesi più industrializzati, una distanza che contribuisce alla scarsa crescita dell’economia nazionale.

Il ritardo italiano è dovuto principalmente a tre grandi fattori: i) un contesto normativo e amministrativo poco favorevole, ii) un gap infrastrutturale che determina un significativo divario digitale per intere province e regioni italiane e iii) una ritrosia culturale delle imprese (soprattutto le piccole e medie) a investire nelle tecnologie digitale per innovare i propri processi e prodotti.

Occorre, quindi, diffondere una cultura favorevole all’innovazione digitale presso le imprese, i consumatori e i decisori pubblici, nella consapevolezza che questa è una strada obbligata per chi vuole governare e vincere le sfide che la società del futuro porrà di fronte.

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