Chi ha paura dell’euro?

In vent’anni, l’euro è divenuto la moneta di 340 milioni di europei e 19 Stati membri, tra cui figurano, fra gli altri, tutti i paesi fondatori e 7 dei 13 che vi hanno aderito dopo l’avvio della sua circolazione. Si tratta di una moneta che influisce direttamente o indirettamente sulla stabilità valutaria di 60 territori situati anche al di fuori dei confini del vecchio continente, coinvolgendo circa il 6.5% della popolazione mondiale; costituisce, non a caso, il 20,1% delle riserve valutarie globali (1). È anche una moneta popolare: in vent’anni il sostegno verso la moneta unica è incrementato dal 71% nei primi anni duemila al 74% attuale.

Per uno scherzo della storia, tuttavia, l’occasione dei vent’anni della moneta comune coincide con due momenti di svolta del cammino di integrazione europea. Non era infatti mai accaduto che uno Stato membro mettesse concretamente in pratica la minaccia di recedere dai Trattati, dando corso alla risicata vittoria referendaria di un’instabile maggioranza euroscettica. Come se non bastasse, le elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo sono avvertite come una resa dei conti tra due visioni antitetiche dell’Unione, dal cui esito potrebbe derivarne un ulteriore indebolimento.

Di fronte allo scenario incerto e fragile di un’Europa che continua a vivere di crisi, la moneta unica è parte del problema o della soluzione?

Inflazione e dinamiche di finanziamenti, redditi e occupazione sono segni tangibili del suo successo.

 

Dal 1999 a oggi, il tasso di inflazione mensile medio nell’Eurozona è stato pari all’1,7%, significativamente inferiore rispetto a quello rilevato nell’ultimo trentennio del secolo scorso.

 

 

Nel medesimo periodo, il tasso di interesse medio sui mutui ipotecari nell’Eurozona si è ridotto da poco meno del 6% a poco più del 2%.

 

 

Il reddito medio nell’area è cresciuto da 20.000 a 33.900 euro, mentre la percentuale di occupati è salita da poco meno del 64% a oltre il 71% (2).

 

 

 

 

Tuttavia, se si guarda alle diseguaglianze e al grado di integrazione sincrona tra i paesi, lo scenario appare meno positivo.

L’euro ha creato tra gli Stati partecipanti una frattura nelle rispettive capacità di manovra fiscale. La convergenza dei cicli economici ha raggiunto livelli particolarmente soddisfacenti fra i paesi core dell’area, ma ha interessato marginalmente gli Stati periferici. Gli interventi di stabilizzazione del sistema finanziario assunti in risposta alla crisi globale hanno accentuato i rischi di sostenibilità a medio termine del debito per molti paesi dell’Eurozona: ciò ne ha ridotto la capacità di rispondere a fluttuazioni negative del ciclo economico, già limitata per effetto dei vincoli di convergenza e della perdita del monopolio monetario (3).

Una luce incerta si proietta, quindi, sui prossimi vent’anni della «terza fase» dell’Unione economica e monetaria.

Apice di una rincorsa iniziata all’indomani del crollo di Bretton Woods, l’euro ha segnato l’ultimo scorcio del Novecento economico, traghettando l’Unione di Maastricht verso un maggiore protagonismo globale. La sua concezione formale, istituzionale e materiale evidenzia i tratti compromissori dell’Unione: la rigidità inadeguata delle regole di convergenza per l’adesione; la creazione di una banca centrale modellata sull’esempio tedesco ma aperta a revisioni funzionali di ascendenza francese; il riferimento alla comune matrice culturale greca nella epsilon che simbolicamente lo rappresenta; il rimando al percorso secolare di evoluzione artistica nelle banconote e nei pezzi monetari, patrimonio condiviso che costituisce la più immediata percezione di quella «unione nella diversità» alimento e motto dello spirito di integrazione.

L’euro e l’edificio giuridico e politico su cui poggia si mostrano, però, incompleti.

Tre elementi agitano il dibattito tra gli “addetti ai lavori”: il completamento dell’unione bancaria; la trasformazione del Meccanismo europeo di stabilità (MES) in un Fondo monetario europeo (FME); l’istituzione di un Ministro delle finanze. Questi strumenti, se adeguatamente congegnati, potrebbero rafforzare la capacità delle istituzioni europee di garantire la stabilità finanziaria ed economica dell’intera Unione, incrementare il benessere aggregato di cittadini e imprese, approfondire il processo di integrazione attraverso le leve della solidarietà e della solidità del mercato. Basteranno?

Il completamento dell’unione bancaria passa per il varo di un sistema europeo di garanzia sui depositi bancari. Gli schemi di garanzia sono inibitori del “panico finanziario”: come i più comuni calmanti, la loro semplice disponibilità ha un effetto placebo, prevenendo gli attacchi o il loro acuirsi. La mancanza di un sistema di assicurazione unitario è ostaggio della sfiducia che serpeggia tra centro e periferia dell’area-euro, del timore che la solidarietà si trasformi nell’azzardosa offerta di un free lunch a chi non si sia adeguatamente adoperato per ridurre il peso di attivi bancari tossici.

La credibilità della garanzia dei depositi dipende, al contempo, dalla presenza di un fiscal backstop, un cuscinetto di risorse pubbliche posto come ultima linea di difesa fiduciaria a protezione del sistema finanzario. In Europa questa funzione è in parte svolta dal MES, un’istituzione extra-ordinem rispetto all’Unione ma con essa interconnessa. L’istituzione del FME ancorerebbe meglio la protezione della comune stabilità finanziaria alla dimensione sovranazionale europea, favorendo il mutuo sostegno.

Il fiscal backstop risulterebbe però incompleto in assenza di un apparato istituzionale provvisto di adeguata legittimazione democratica. Il federalismo “a metà” dell’attuale governance economica europea manca di una figura cui attribuire onori e oneri annessi alle complesse scelte che assicurano la stabilità economico-finanziaria. L’istituzione di un “ministro” sarebbe però un elemento di per sé insufficiente se non accompagnato sia da un ampliamento del bilancio europeo, che da una riscrittura del bizantino corpus di regole sul semestre europeo.

Ad oggi, un silenzio assordante copre queste tematiche nel dibattito pubblico italiano.

Fuori dai consessi degli “addetti ai lavori” è impossibile non percepire la completa mancanza di avvertite e approfondite riflessioni sul grande tema del completamento (sia esso necessario o meno) dell’Uem. Ciò deriva dall’incapacità delle forze politiche di comunicare in maniera efficace e chiara vantaggi e svantaggi della costruzione economica europea? O, piuttosto, si tratta dell’ennesima “prova di distanza” dell’Unione dai suoi cittadini, del clima di reciproca incomunicabilità e sfiducia che perdura dagli anni più duri della crisi?

Il silenzio relega le questioni nodali del benessere economico collettivo dei cittadini europei al particolarismo individuale e nazionale, alimenta un’acritica polarizzazione tra “pro-” e “anti-” che non consente il formarsi di un pensiero compiuto, liberalizza i dogmi del rifiuto o della supina accettazione dello status quo. Si tratta di un limite grave nel discorso pubblico intorno all’euro e, per esso, all’Europa intera. Un limite al cui superamento bisogna concorrere per prevenire il rischio di non festeggiare, se ancora lo si vuole, molti altri compleanni insieme.

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(1) Statistiche sul ruolo internazionale dell’euro sono indicate nelle pubblicazioni ufficiali della Banca centrale europea, la cui versione più recente è disponibile qui.

(2) Tutte le statistiche indicate nei grafici sono tratte dalla pubblicazione della Commissione europea, L’euro in cifre, disponibile qui.

(3) K. Bernoth, F. Bremus, G. Dany-Knedlik, H. Enderlein, M. Fratzscher, L. Guttenberg, A. Kriwoluzky, R.M. Lastra, Happy Birthday? The euro at 20, disponibile qui.