Aldo Buoncristiano, prefetto della Repubblica, tra lo Stato e le Regioni

Aldo Buoncristiano (1918-2006), prefetto tra i più capaci e prestigiosi della Repubblica, entrò nella amministrazione dell’Interno a 25 anni, subito dopo l’8 settembre 1943. col grado di vice consigliere in prova. Richiamato per le sue doti al Viminale, nel 1948 fu incaricato di dirigere la segreteria del capo della Polizia (funzione che mantenne per diversi anni e con differenti superiori gerarchici). Fu poi apprezzato collaboratore dei presidenti del Consiglio Segni e Fanfani, ma soprattutto fece parte di quella leva di funzionari che ebbe in Mario Scelba, allora ministro dell’Interno e più tardi a sua volta per una breve parentesi capo del Governo, il suo punto di riferimento politico più prossimo.

Buoncristiano era già negli anni Cinquanta il vice dell’alto commissario alla sanità (1955-58), quindi gli venne affidata la guida della cruciale direzione generale della Pubblica sicurezza. E qui divenne il primo collaboratore del prefetto Angelo Vicari capo della Polizia.

Molti gli incarichi delicati che gli vennero assegnati. Fu lui, ad esempio, a occuparsi delle principali emergenze degli anni Sessanta, come l’alluvione di Firenze e il terremoto del Belice. Nel 1969, nominato prefetto, ebbe come prima sede Matera, poi Potenza, poi dal 1973 al 1977 Firenze, per essere quindi destinato di nuovo a Roma quale direttore generale degli affari generali e del personale. In quel ruolo si impegnò molto per la riforma legislativa della Polizia.

La sua carriera si chiuse formalmente nel 1984, ma Buoncristiano aveva un tale prestigio tra i colleghi (alcuni dei quali erano stati letteralmente suoi allievi) e tale capacità e cultura dell’amministrazione da restare sino alla sua scomparsa una presenza costante nel Ministero, membro e presidente di organismi e commissioni ma soprattutto prezioso consigliere dei più giovani dirigenti.

In questo brano, estratto con qualche omissione irrilevante da una sua testimonianza degli anni Novanta, egli rappresenta bene lo stato d’animo di amarezza che fu proprio della vecchia guardia prefettizia negli anni difficili della nascita delle Regioni a statuto ordinario, quando si dovette provvedere al riparto delle competenze tra questo nuovo soggetto e lo Stato centrale. Non fu “amico” delle Regioni. Il suo fu (lo si comprende solo a leggere queste righe), pur nel rispetto delle norme e delle istituzioni, un atteggiamento preoccupato, critico, forse anche conservatore, nel quale però si intuiva l’attaccamento profondo alla carriera dell’Interno e a quel mondo antico del Viminale che vedeva, a torto o a ragione, messo in ombra dalla riforma.

L’istituzione delle regioni modificò radicalmente il quadro politico amministrativo della Repubblica italiana. (…). Ricordo solo due fatti,  che condizionarono fin dal primo momento i rapporti Stato-Regioni ed il funzionamento di queste ultime.

Il primo fatto fu l’istituzione – neanche corretta sotto il profilo costituzionale – di un Ministro senza portafoglio (ed anche senza collaboratori qualificati) per gli affari regionali. Nel momento storico in cui si doveva richiedere allo Stato la massima professionalità venne messo in quarantena il Ministero dell’Interno – i cui quadri erano gli unici che conoscevano i problemi del territorio – ed improvvisata una struttura che avrebbe dovuto ridisegnare il nuovo Stato nelle sue articolazioni centrali e periferiche ed armonizzare il rapporto tra i due grandi enti territoriali (Stato-Regioni). Ne nacque una confusione e una paralisi pari a quella che vi sarebbe stata se la riforma delle scuole (ad esempio) fosse stata attuata non dal Ministero della Pubblica Istruzione ma da una struttura che non si era mai occupata dei problemi dell’istruzione dei giovani.

Il secondo fatto fu la nomina dei commissari di governo, previsti dall’art. 124 della Costituzione secondo il quale “un Commissario del Governo, residente nel capoluogo della regione, soprintende alle funzioni amministrative esercitate dallo Stato e le coordina con quelle esercitate dalla Regione”. La questione – sulla scelta dei commissari del governo – era stata già dibattuta quando fu proposta la legge (che prese il nome del Ministro Scelba) n. 62 del 1953. L’art. 40 prevedeva che il Commissario fosse nominato con decreto del Presidente della Repubblica su proposta del Presidente del Consiglio, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, di concerto con il Ministro dell’Interno. Stabiliva inoltre che non potevano essere nominati commissari di governo funzionari statali di grado inferiore al IV.

(…) Era impensabile allora che i successori di De Gasperi avrebbero consegnato i posti chiave dell’esecutivo ai Consiglieri di Stato, che per legge non dipendono dall’esecutivo. (…) Il Governo –  invece – ha lasciato che un altro potere si infiltrasse nei gangli vitali dell’esecutivo, condizionandone fortemente la funzionalità (…).

Per un caso ero a Roma la mattina in cui vennero concordate le nomine. Alcune circostanze non consentivano di nominare commissari tutti i prefetti dei capoluoghi di regione. Il Consiglio di Stato – che aveva anche un consigliere capo di gabinetto all’Interno – premeva perché in alcune sedi avessero l’incarico suoi magistrati. Venne presa una decisione di compromesso: dodici commissari furono scelti tra i prefetti dei capoluoghi di regione, tre furono scelti tra i consiglieri di Stato. (…). La mia impressione fu che non si comprese come non fossero in gioco le persone; ma il ruolo che il Ministero dell’Interno doveva essere chiamato a svolgere per l’attuazione della riforma regionale.

Aldo Buoncristiano, Un prefetto testimonia. Problemi delle autonomie e della sicurezza, Firenze, Niccoli, 1995, pp. 49-51.