A passeggio con l’informatica – 31. Opportunità per tutti o per pochi?

Trentaduesima puntata del nostro viaggio

 

Ricordavamo, alla fine del precedente post, come le grandi multinazionali della tecnologia sono solite raccontare, per convincerci ad adottare le ultime soluzioni digitali, unicamente i loro aspetti positivi, ignorando o trascurando quelli negativi.

Uno dei primi casi in cui questo è accaduto è stato proprio agli inizi del secolo con la diffusione di Internet su larga scala. Si parlava allora della teoria della “Coda Lunga”, che a suo tempo conobbe una larga diffusione, forse anche perché si stava tentando di ridare un senso agli investimenti sulle tecnologie dell’informazione dopo lo scoppio della bolla delle “dot com avvenuta tra il 2000 e il 2001. In base a questa teoria, la capacità della rete di diffondere velocemente consigli sugli acquisti a persone con gusti e preferenze simili, accoppiata al superamento dei limiti fisici alle scorte di magazzino e al numero di utenti fisicamente raggiungibili, avrebbe aperto a molti prodotti del settore dell’intrattenimento (dai libri ai dischi, fino ai film) possibilità di sfruttamento irraggiungibili con modelli tradizionali. Si sarebbe passati da una situazione di scarsità, in cui solo pochi autori o produttori di best seller raggiungevano fama e ricchezza, a una di abbondanza in cui a molti creatori di contenuti sarebbe stato assicurato un livello di guadagno più che soddisfacente. Il motivo, veniva spiegato, è che le persone vogliono distinguersi e non soltanto seguire le mode e, quindi, sono comunque interessate a prodotti editoriali di nicchia. La rete avrebbe permesso, indipendentemente da quanto era piccola questa nicchia, di trovarne gli abitanti e vendergli i prodotti. Ciò non era possibile, per i vincoli fisici sopra illustrati, con il modello di distribuzione precedente. Questa visione si è rivelata vera solo a metà.

Gli intermediari della distribuzione di tali prodotti editoriali, ognuno dei quali è diventato, nel suo settore, un monopolista, hanno trovato modo di guadagnare dalla vendita anche di pochissime copie (soprattutto se, come nel caso della musica e dei video, i prodotti sono diventati del tutto immateriali, quindi con costi risibili di gestione e pressoché nulli di conservazione). Questo si spiega con il fatto che – in aggregato – poche copie per migliaia o decine di migliaia di prodotti generano comunque valori economici significativi per i distributori. D’altro canto, per la maggior parte dei creatori di contenuti gli incassi relativi a queste poche copie vendute non fanno alcuna differenza significativa. La frase « i soldi maggiori sono nelle vendite più piccole » è diventata vera, ma solo per gli attori maggiori di questo settore commerciale. La prosperità promessa dalla teoria della Coda Lunga è diventata realtà solo per pochi.

Rispetto a quanto accadeva nell’era pre-Internet la popolarità è diventata ancora più squilibrata. Su Spotify, il servizio di streaming musicale  con la maggior quota di mercato (il 32% nel 2021 ), il 90% degli incassi degli autori va a solo l’1,4% di tutti quelli presenti nel servizio, con un guadagno medio pro capite di 22.395 US$ per trimestre. Il restante 98,6% degli autori (circa 3 milioni) guadagna mediamente 36 UD$ a testa nello stesso periodo temporale.

Non ritengo che ci sia qualcosa di intrinsecamente sbagliato in questo meccanismo. Il talento estremo è molto raro e penso sia corretto che venga adeguatamente remunerato, soprattutto perché, alla fin fine, sono gli spettatori che scelgono volontariamente di pagare di tasca propria. Ciò che invece ritengo vada fatto da un punto di vista sociale sia di informare correttamente i giovani – che devono decidere quale strada scegliere per il loro futuro – dell’estremo squilibrio che caratterizza questo tipo di settori. Viceversa, spesso le sollecitazioni che vengono dal mondo dei media sono mirate a convincere che il successo e la fama (e i guadagni) siano lì a portata di mano di tutti quelli che si vogliono impegnare. Certamente, senza impegno costante e profondo, è improbabile arrivare a posizioni lavorative ben retribuite (a meno di essere favoriti dalla classe sociale cui si appartiene), ma nel settore dei contenuti creativi l’impegno, pur necessario, è un fattore molto meno determinante.

Come ha sottolineato bene Nassim Taleb nel suo famoso libro “Il cigno nero”, il successo ottenuto in questo tipo di attività è dipendente in modo elevato dal caso, anche quando si possegga un buon talento innato. Ne parlo in questo contesto perché il settore dell’intrattenimento è diventato economicamente sempre più rilevante, grazie anche al suo prestarsi molto bene a essere diffuso attraverso la tecnologia digitale. Il che aumenta ancora di più lo squilibrio nella distribuzione dei guadagni. Pertanto, è opportuno che una società nel suo complesso, orienti le scelte dei giovani verso professioni “normali”, in cui si viene sostanzialmente pagati in modo proporzionale alla quantità di lavoro svolto.

Svolgendo un lavoro di questo genere, che è in pratica la sola tipologia che veniva presa in considerazione dalla stragrande maggioranza dei giovani fino a circa un secolo fa, è improbabile diventare ricchi, ma lo è anche diventare poveri. In questo senso, si tratta di una situazione socialmente desiderabile, perché minimizza il caso pessimo a cui le persone possono andare incontro.

Se 100 giovani vogliono fare gli scrittori e dedicano la loro vita a questo, è assai plausibile che a metà della loro vita al più una decina siano molto ricchi, mentre i restanti 90 si arrabatteranno con lavoretti di sopravvivenza. Viceversa, se 100 giovani vogliono fare gli impiegati, il risultato più plausibile è che solo una decina di loro a metà della loro vita sia ancora in cerca di una sistemazione soddisfacente, mentre i restanti 90 avranno un lavoro fisso e avranno avviato una famiglia.

È evidente che, sul piano sociale, la seconda situazione, in cui le disuguaglianze del reddito sono molto meno accentuate, è assai più desiderabile della prima. Questo è accertato anche dall’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico). Negli anni 80 il 10% più ricco della popolazione mondiale aveva un reddito solo 7,1 volte superiore a quello del 10% più povero. Nel 2015  era diventato 9,6 volte superiore (e sono convinto che gli ultimi dieci anni abbiano aumentato ancora questo squilibrio). Come documentato sempre dall’OCSE, tra il 1990 e il 2010, a causa di questa ragione, nei paesi OCSE si sono persi complessivamente 4,7 punti percentuali di crescita totale. Si considera spesso la California come lo stato degli USA al quale guardare, per la sua capacità di combinare tolleranza sociale e innovazione tecnologica che lo ha portato a essere, in modo paradigmatico, l’incarnazione del “sogno americano” e, quindi, più in generale, dell’universale speranza in un futuro migliore. Ma il livello di disuguaglianza sociale in quello stato è maggiore di quello del Messico, alla pari con Guatemala e Honduras. Normalizzato rispetto al costo della vita, il tasso di povertà è il più alto di tutti gli USA. Nella zona che comprende San Francisco e i suoi dintorni, una delle più dinamiche e più sviluppate di tutti gli Stati Uniti, vivono 76.000 tra milionari e miliardari ma, allo stesso tempo, il 30% dei residenti riceve assistenza economica da enti pubblici o privati.

È questa situazione che ha portato diversi autori a parlare dell’epoca contemporanea come di un neo-feudalesimo o tecno-feudalesimo, basato, invece che sul possesso della terra, sulla quantità di dati digitali. Descrivo più in dettaglio questo fenomeno nel mio volume La rivoluzione informatica, che rischia non solo di portare indietro di secoli il benessere delle persone, ma di arretrare l’impostazione della società da quel “governo delle leggi” che è stato essenziale per la nascita delle moderne società democratiche a un “governo degli individui” che ha caratterizzato i lunghi secoli nei quali gli individui erano asserviti, generazione dopo generazione, ai voleri e capricci del loro signore.

Esploreremo nel prossimo post, che concluderà questa passeggiata, come sia necessaria per contrastare questa deriva una nuova visione politica della società digitale.

 

( I post di questa serie sono basati sul libro dell’Autore La rivoluzione informatica: conoscenza, consapevolezza e potere nella società digitale, al quale si rimanda per approfondimenti. I lettori interessati al tema possono anche dialogare con l’Autore, su questo blog interdisciplinare, su cui i post vengono ripubblicati a partire dal terzo giorno successivo alla pubblicazione in questa sede. )