La Roma miserabile di Pier Paolo Pasolini nell’indifferenza della classe dirigente del “miracolo”

La Roma di Pier Paolo Pasolini (1922-1975) vista agli inizi degli anni Sessanta: il degrado estremo delle periferie urbane, una edilizia fatiscente, l’addensarsi confuso del “popolo” (a suo tempo scacciato dal centro grazie alla pretenziosa politica urbanistica di Mussolini), i ragazzi di vita e il loro miserrimo tirare a campare, la piccola delinquenza che entra e esce da Regina Coeli, i ghetti e la fame. Non si può essere onesti e virtuosi se si dorme in undici in una sola stanza. E la classe dirigente del benessere per tutti non lo sa, o non vuole saperlo. Pagine amare, realistiche, brucianti anche, che parlano di un mondo nascosto agli occhi di tutti: nella Roma delle Olimpiadi e del miracolo economico.

C’è da meravigliarsi che i ragazzi onesti e le ragazze serie siano tanti, a Roma. Su di loro si usa unicamente il vecchio metodo della coercizione: gli si dà un lavoro malpagato e incerto – quando non la più umiliante disoccupazione – gli si dà una vita fatta solo di stenti e di desideri insoddisfatti, gli si dà una casa dove si dorme in undici in una camera: per contropartita, gli si offre l’ideale di essere onesti e mansueti. Ossia gli si toglie qualcosa di essenziale, e al posto di questo qualcosa di essenziale non gli si dà nulla. Essi, del cittadino, hanno soltanto i doveri: e devono trovare dentro sé stessi la forza di apprezzare e amare questi doveri.

Insomma, la classe dirigente italiana, è, in campo morale, perversamente tautologica: il senso del dovere, la virtù, secondo la classe dirigente italiana, esistono di per sé, si creano per forza naturale: non sono, insomma, dei prodotti storico-culturali. E dunque si pretende che ci siano, anche se non c’è nessuna ragione che ci siano. (…) Mi pare che il minimo che si debba dare a un popolo – anche mettendoci dal punto di vista paternalistico dei democristiani – per ottenere come contropartita la virtù, sia una casa decente. Vorrei vedere l’umore di Scelba, di Tambroni, del cardinale Ottaviani e altri otto loro colleghi (in modo da essere in tutto undici) se fossero costretti a dormire per anni insieme in una sola camera.

Pier Paolo Pasolini, Gli alberghi di massa, in “L’Unità”, 7 marzo 1961, ora anche in Id., Storie della città di Dio. Racconti e cronache romane 1950-1966, Torino, Einaudi, 1995, pp. 141-142.