
L’irruzione del digitale nell’amministrazione pubblica mette a fuoco la natura dinamica dei diritti fondamentali, che non sono meri enunciati ma pretese esigibili entro contesti tecnologici, organizzativi e regolatori concreti; la digitalizzazione, lungi dall’essere un fatto neutro, è una pratica di potere che ridisegna spazi e tempi dell’azione amministrativa e impone di rileggere i canoni della legalità sostanziale, della proporzionalità e della ragionevolezza alla luce della circolazione dei dati, dell’automazione delle decisioni e dell’interoperabilità delle piattaforme. Il quadro costituzionale e sovranazionale – dagli articoli 2, 3, 24, 32 e 34 della Costituzione, alla CEDU e alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione – resta la grammatica di riferimento, ma la sintassi del suo impiego cambia quando l’incontro tra cittadino e pubblica amministrazione avviene attraverso identità digitali, registri elettronici, sistemi di notificazione telematica, portali verticali, fascicoli informatici, algoritmi selettivi e modelli predittivi; la garanzia dei diritti si misura allora lungo tre livelli, quello infrastrutturale delle reti e dei servizi di connettività, quello organizzativo dei processi e delle competenze, quello logico-decisionale dei codici e dei dati. È in questa prospettiva che il diritto amministrativo è chiamato a verificare se e come la digitalizzazione rafforzi o affievolisca il diritto di difesa, il diritto ad essere informati, il diritto alla salute e il diritto all’istruzione, sapendo che gli stessi strumenti che promettono efficienza e tracciabilità possono produrre nuove forme di opacità, diseguaglianza e privatizzazione silente delle funzioni pubbliche.
Con riguardo al diritto di difesa, la transizione al procedimento e al processo in ambiente digitale modifica le condizioni concrete di esercizio del contraddittorio e dell’accesso agli atti, consentendo la ricostruzione puntuale delle attività mediante log, marcature temporali e firme elettroniche, la partecipazione a distanza, la consultazione integrale del fascicolo informatico e la calendarizzazione affidabile degli adempimenti; la riduzione dei costi di transazione e la possibilità di attivare in tempi rapidi il preavviso di rigetto, di allegare documenti, di ricevere comunicazioni e provvedimenti in formato interoperabile ridisegnano la topografia della difesa, che viene potenziata nella sua dimensione informativa e organizzativa. Tuttavia gli stessi meccanismi che accelerano l’istruttoria rischiano di irrigidirla, creando una sorta di mitologia informatica: la formalizzazione tecnica di formati e metadati può trasformare il minimo errore informatico in causa di inammissibilità, la scansione temporale dettata dai sistemi può rendere più gravosa la diligenza processuale del difensore e dell’interessato, le disparità di connettività e di competenze digitali possono diventare barriere di accesso mascherate, la delega ad apparati algoritmici nella fase di selezione e ranking dei casi o nella valutazione tecnico-discrezionale può erodere la pienezza del sindacato giurisdizionale se non sono garantite spiegabilità della logica, tracciabilità dei dati, auditabilità del modello e possibilità di riconsiderazione umana; a tutela del nucleo inviolabile del diritto di difesa occorre allora consolidare il principio di “human in the loop”, ampiamente richiamato dalle pronunce del giudice amministrativo nazionale, come clausola generale, rafforzare l’accesso ai codici e ai dataset rilevanti mediante regimi di discovery calibrati sulle esigenze processuali, prevedere rimedi rapidi contro i malfunzionamenti dei sistemi e neutralizzare gli effetti tecnici sproporzionati mediante regole sul soccorso istruttorio digitale e sulla sanatoria degli errori meramente informatici.
Il diritto ad essere informati, che è condizione abilitante della partecipazione, della responsabilità amministrativa e della stessa effettività dei rimedi, trova nel digitale un moltiplicatore di possibilità: la pubblicazione proattiva e riusabile dei dati, l’esposizione mediante API, i cruscotti di monitoraggio dei procedimenti, le notifiche personalizzate, i portali di pagamento e di istanze dematerializzate riducono le asimmetrie informative, rendono misurabili tempi, esiti e performance, aprono lo spazio a controlli sociali e civici qualificati e, se ben progettati, consentono al cittadino di autodeterminarsi in modo consapevole senza dover permanentemente negoziare con l’opacità dell’apparato. Eppure la trasparenza digitale può capovolgersi nel proprio contrario quando l’amministrazione inonda di documenti non strutturati e non indicizzabili, quando confonde informazione con partecipazione, quando abdica alla responsabilità di curare qualità, integrità e aggiornamento dei dati; al cittadino viene allora chiesto di orientarsi in un labirinto di informazioni diseguali, spesso pubblicate in formati non accessibili o ospitate in piattaforme la cui logica di raccomandazione non è sotto controllo pubblico, mentre la tensione fra trasparenza e protezione dei dati personali riemerge acutamente se l’apertura non è filtrata da principi di minimizzazione, limitazione della finalità e proporzionalità. La eterogeneità del diritto ad essere informati, che rende necessario un approccio interdisciplinare, dipende da una governance del dato che consideri standard aperti e metadatazione come requisiti giuridici, da interfacce progettate secondo criteri di usabilità e accessibilità universale, da presìdi contro i dark patterns nella comunicazione istituzionale, da meccanismi di rettifica tempestiva e tracciata, da un disaccoppiamento intelligente rispetto ai canali privati, così che l’amministrazione non diventi ostaggio della visibilità algoritmica decisa da soggetti non sottoposti a obblighi di servizio pubblico.
In materia di diritto alla salute, la digitalizzazione ha mostrato la propria ambivalenza con particolare evidenza: da un lato il fascicolo sanitario elettronico, la prescrizione dematerializzata, le piattaforme di prenotazione, i sistemi di telemonitoraggio e di televisita, i registri di patologia e gli strumenti di analisi dei flussi hanno migliorato la continuità delle cure, ridotto duplicazioni e inappropriatezze, reso più trasparenti le liste d’attesa e consentito una programmazione fondata su evidenze; la possibilità di integrare dati provenienti da diversi livelli e territori, se assistita da regole di interoperabilità e da adeguati protocolli di sicurezza, rafforza l’universalismo del servizio e permette interventi mirati, in particolare nei confronti dei pazienti cronici e fragili. Dall’altro lato la concentrazione di informazioni altamente sensibili amplia la superficie d’attacco per incidenti di sicurezza, mentre l’uso di sistemi di triage e prioritarizzazione sostenuti da modelli predittivi può generare esiti discriminatori se i training set riflettono bias storici o se la logic of decision rimane opaca; la telemedicina, se non ancorata a percorsi fisici e a una robusta alfabetizzazione digitale, rischia di divenire un surrogato di minor qualità, alimentando una “selezione per competenze” che allarga i divari territoriali e sociali, e la dipendenza da fornitori proprietari, se non governata da contratti calibrati e da strategie di riuso, può tradursi in lock-in tecnologici che sottraggono risorse all’innovazione clinica e organizzativa. In una prospettiva di diritto amministrativo, l’equilibrio si gioca su standard tecnici e giuridici di sicurezza, su valutazioni d’impatto periodiche per i sistemi ad alto rischio, su registri e audit degli algoritmi clinico-amministrativi, sul diritto alla riconsiderazione umana di decisioni automatizzate che incidono su accesso e priorità di cura, su meccanismi di accountability che rendano verificabili le scelte anche ex post, su livelli essenziali delle prestazioni digitali che includano connettività, dispositivi e supporto alle competenze per gli utenti più deboli, così che l’innovazione divenga vettore di eguaglianza sostanziale e non fonte di nuove esclusioni.
Il diritto all’istruzione, infine, esprime in modo paradigmatico la dialettica tra opportunità e rischi: ambienti virtuali di apprendimento, risorse educative aperte, learning analytics, registri elettronici, pratiche di didattica mista e a distanza hanno ampliato il perimetro di fruizione, permesso una personalizzazione dei percorsi e fornito agli attori pubblici dati preziosi per prevenire abbandono e dispersione; l’accesso asincrono a contenuti di qualità, la collaborazione tra scuole, università, enti di ricerca e territori, la certificazione digitale di competenze e crediti possono emancipare l’istruzione dalla rigidità spazio-temporale e offrire nuove traiettorie di inclusione. Al tempo stesso la piattaformizzazione dei processi educativi tende a standardizzare metodi e forme di valutazione, a privilegiare ciò che è facilmente misurabile rispetto a quanto richiede esperienza laboratoriale e relazione, a introdurre meccanismi di proctoring e di sorveglianza che sollevano dubbi di proporzionalità e di eguaglianza, a esporre gli studenti al rischio di profilazioni pervasive; la diseguale disponibilità di dispositivi e connessioni si traduce in iniquità se non è affrontata come livello essenziale della prestazione educativa, e la spesa pubblica può scivolare verso canoni e licenze senza corrispondente investimento in formazione docenti, progettazione didattica, sviluppo e riuso di software aperto. Il diritto amministrativo dell’istruzione è chiamato a tradurre in regole operative principi di minimizzazione, trasparenza algoritmica e interoperabilità, a riconoscere allo studente diritti effettivi nei confronti di ogni processo automatizzato che incide su ammissioni, borse, progressioni e valutazioni, a orientare il procurement verso soluzioni auditabili e modulari, a definire clausole di uscita che scongiurino dipendenze strutturali, a sostenere con risorse certe l’accesso materiale e le competenze, mettendo la professionalità docente al centro dell’innovazione e non ai margini come semplice esecutore di piattaforme.
Se si guarda trasversalmente ai quattro diritti considerati, emerge che la digitalizzazione non è di per sé fattore di erosione o di espansione, ma dispositivo moltiplicatore delle scelte di governo: quando i requisiti di accessibilità universale, sicurezza, trasparenza e spiegabilità sono incorporati ex ante nella progettazione delle piattaforme e dei processi, quando i dati sono governati come beni pubblici e non come materie prime da estrarre senza regole, quando l’automazione rimane ancillare rispetto alla responsabilità pubblica della decisione e quando il rimedio giurisdizionale è abilitato a comprendere, esaminare e correggere anche ciò che è iscritto in codice, i diritti di difesa, ad essere informati, alla salute e all’istruzione escono rafforzati; quando invece l’enfasi sull’efficienza spinge a naturalizzare scelte tecniche opache, a spostare snodi essenziali verso dispositivi e piattaforme sottratti alla logica dell’interesse generale, a tollerare divari di competenze e di connettività che diventano nuovi criteri di selezione, allora quei diritti si affievoliscono, talora senza dichiarazioni di principio ma nella pratica quotidiana.
In conclusione, alla domanda se i diritti fondamentali siano affievoliti dal processo di digitalizzazione occorre rispondere con una prudenza vigile: il rischio c’è, ed è concreto, e continuerà a manifestarsi finché la dimensione normativa e tecnica non sarà sostenuta da una autentica cultura della digitalizzazione che parta dal basso, cioè da cittadini, comunità professionali, scuole, amministrazioni locali capaci di comprendere e governare gli strumenti, di chiedere conto delle scelte, di partecipare alla loro progettazione e di far valere, anche nella quotidianità operativa, i principi che presidiano la legalità; la legge e la tecnologia sono condizioni necessarie ma non sufficienti, perché senza alfabetizzazione diffusa, responsabilità organizzative chiare, pratiche di co-progettazione e meccanismi di verifica indipendente, l’innovazione rischia di consolidare asimmetrie e opacità. È dunque nella costruzione di una cittadinanza digitale sostanziale, informata, esigente e inclusiva, che i diritti considerati troveranno il loro punto di equilibrio: prima che un esito tecnico, l’effettività è un’opera collettiva di cultura amministrativa, e soltanto quando tale cultura sarà matura la digitalizzazione potrà smettere di essere una promessa ambigua e diventare, senza affievolimenti, una concreta espansione delle libertà.
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