La centralizzazione delle decisioni non è necessariamente di destra: una riflessione di Vittorio De Caprariis

Vittorio De Caprariis (Napoli, 1924-Roma,1964), originario di Atripalda in Irpinia, fu uno dei più promettenti giovani intellettuali dell’Italia dell’immediato dopoguerra. Seguace di Benedetto Croce (del quale sposò in prime nozze la figlia Lidia), militante del Partito d’Azione, laureatosi a Napoli in giurisprudenza nel 1946, nel ’47 entrò come borsista all’Istituto italiano per gli studi storici, fondato nel frattempo da Croce e diretto da Federico Chabod. Dell’Istituto anzi divenne ben presto vicedirettore. Dal ’49 al ’53 strinse rapporti con gran parte della intellettualità partenopea, legandosi ad Alfonso Omodeo, a Guido Dorso e più tardi a Francesco Compagna, con il quale fondò la prestigiosa rivista meridionalista “Nord e Sud” (1954). Collaborò strettamente anche al settimanale radicale “Il Mondo”, diretto da Mario Pannunzio, scrivendovi di frequente sotto lo pseudonimo di “Turcaret”. Uno di questi articoli (veri e propri piccoli saggi, come si vedrà) costituisce la fonte del ritaglio che segue.

De Caprariis morì giovanissimo, a soli 39 anni, lasciando una cospicua serie di libri e di saggi, tra i quali uno su Socrate (in “La Parola del passato”, Napoli, 1947); il lavoro su “Francesco Guicciardini dalla politica alla storia” (Bari, 1950); gli studi su Bodin (sul problema della tolleranza nelle guerre di religione in Francia) e quelli sulle origini dello Stato moderno; l’importante studio su “Propaganda e pensiero politico in Francia durante le guerre di religione” (Napoli, 1959).  Nel ’54 conseguì la libera docenza all’insegnamento di storia delle dottrine politiche, e nel ’56  fu incaricato presso l’università di Napoli e nel ’60 titolare, presso quella di Messina. In questo articolo De Caprariis affrontava un tema che appare oggi di sorprendente attualità: come cioè la tendenza alla centralizzazione delle decisioni, sia in economia sia in politica, possa essere di volta in volta bandiera delle forze democratiche e progressiste ma anche di quelle antidemocratiche e autoritarie. Con una differenza di fondo, però: che per le prime sarà sempre finalizzata alla conquista della libertà, per le seconde strumento di nuovo autoritarismo.

 

In un brillante articolo di Schlesinger, lo storico di Jackson e di Roosevelt attualmente consigliere di Kennedy, si legge un’osservazione che può parere addirittura ovvia: “viviamo – dice Schlesinger – in un’epoca che tende alla centralizzazione. La scienza e la tecnica hanno ridotto le distanze e reso possibile – e  in molti casi tecnicamente necessaria – l’esistenza di vaste organizzazioni. Per questa ragione, in ogni società industriale odierna, quale che sia il sistema di proprietà in essa vigente, si riscontrano tendenze alla centralizzazione e la presenza di masse e di blocchi compatti”. (…).

Si può ben dire che nelle frasi che abbiamo riportate v’è la constatazione del punto di arrivo di un processo storico che viene di lontano (…) e che non è stato solo degli Stati Uniti: una constatazione che fa ormai parte della coscienza comune del pensiero politico contemporaneo. E (…) si può aggiungere che fa parte della coscienza comune l’analogia, che si è tanto spesso tracciata, tra questo fenomeno della vita economica e l’altro, simile, che si rileva ogni giorno nella vita politica. Anche qui la tendenza alla concentrazione dei poteri, all’accentramento delle funzioni, è un fatto difficilmente contestabile. Ed anzi, proprio per le nuove responsabilità che sono state attribuite per generale consenso ai governi, tale tendenza è addirittura sollecitata. Come potrebbe un Governo esercitare il suo ruolo di ultima istanza riequilibratrice della vita sociale, come potrebbe far fronte all’esigenza del suo intervento nell’economia, senza i poteri di decisione e di esecuzione necessari? (…).

Tuttavia, come accade talvolta nella polemica quotidiana, questo tema e le deduzioni che se ne traggono, sull’arretratezza e la scarsissima funzionalità di certe istituzioni e sulla necessità di sottoporre a una revisione coraggiosa taluni meccanismi costituzionali, sono diventati patrimonio del pensiero politico anche di una certa destra, se non proprio antidemocratica almeno tendenzialmente tale.

E anche da destra, in effetti, si viene affermando che lo stato di tipo parlamentare non è più adatto ai tempi nei quali viviamo, e che conviene agire e riformare subito prima che sia troppo tardi. (…).

Comunque ciò sia, non credo che vi sia da prendere eccessivo scandalo del fatto che talune diagnosi del più moderno e spregiudicato pensiero democratico coincidano con quelle di uomini e raggruppamenti che si sogliono definire di destra. (…) Quel che conta è che, per simili che siano o vogliano essere talune diagnosi, le conclusioni che se ne deducono e le direttrici di azione che se ne traggono sono molto diverse, e diversa, drasticamente, è la visione dello stato moderno e delle sue funzioni (…). E l’elemento di differenziazione radicale è proprio la concezione della libertà: la quale è negata nei sistemi di destra o ammessa soltanto alla stregua di un privilegio, laddove nella visione democratica della vita politica è la reale forza attiva del sistema, è – come già fu detto con formula felice – libertà liberatrice. Quando si tenga in mente questa differenza fondamentale, apparirà subito evidente che le riforme istituzionali sollecitate da quella che chiamiamo la destra d’azione sono soltanto strumento tecnico aggiornato di governi politicamente e socialmente conservatori; mentre le riforme chieste dal pensiero di democratici servono a creare nuovi equilibri politici e sociali a livelli sempre più elevati.

 

Turcaret (Vittorio De Caprariis), Lo Stato e l’individuo, in “Il Mondo”, 20 agosto 1963, p. 9.