Massimo Severo Giannini: «La lentissima fondazione dello Stato» (1981)

Massimo Severo Giannini (1915-2000) è stato uno dei più importanti giuristi italiani del secolo scorso. Allievo di Santi Romano (poi anche di Guido Zanobini), vinse giovanissimo (a soli 24 anni) la cattedra in diritto amministrativo e fu subito «chiamato» (nell’anno accademico 1939-40) dall’università di Sassari, ove tenne la celebre prolusione sui Profili storici della scienza del diritto amministrativo. Risalgono a questo primo periodo anche due altre opere fondamentali: “L’interpretazione dell’Atto amministrativo e la teoria giuridica generale dell’interpretazione” e “Il potere discrezionale della pubblica Amministrazione”, entrambe edite da Giuffrè, Milano, 1939. Durante il periodo dell’occupazione nazifascista di Roma Giannini, socialista, operò nelle Brigate Matteotti e il 24 gennaio 1944 partecipò attivamente (guadagnandosi una decorazione) all’azione culminata nella fuga rocambolesca di sette prigionieri antifascisti (tra i quali Pertini e Saragat) dal carcere di Regina Coeli. Fu poi, nel periodo della Assemblea costituente, a capo del gabinetto del Ministero appositamente istituito, fiancheggiando da vicino l’opera dell’amico ministro Pietro Nenni.

Professore a Perugia, Pisa e a Roma, direttore dopo Zanobini della prestigiosa «Rivista trimestrale di diritto pubblico», fu autore di centinaia di pubblicazioni, alcune rimaste dei veri e propri «classici» del diritto pubblico e amministrativo. Studioso profondo dei problemi dell’amministrazione, diede in moltissime occasioni il suo contributo a commissioni governative e in generale a comitati di studio sulla questione burocratica. Sulla sua breve ma significativa esperienza alla guida del Ministero per l’organizzazione della pubblica amministrazione e per le Regioni si veda più avanti la lettera al leader socialista Bettino Craxi, con la quale trasse l’amaro bilancio del suo allontanamento dalla compagine governativa, proprio quando il suo progetto di riforma era sul punto di essere approvato. Nel brano che segue, tratto da uno dei saggi più significativi, una icastica ma illuminante diagnosi del vizio di fondo dello Stato italiano repubblicano.

Lo Stato repubblicano è ancora un edificio in costruzione: per alcune parti anzi malfatto; per altre perfino somigliante ad un bel rudere, come quello di un palazzo imperiale del Palatino. Dire che gli ideali della Costituente sono ancora vivi è una beffa, o una truffa, a seconda di chi lo dice. Da oltre un anno siamo in una fase di stallo; la crisi economica sta divenendo un diversivo, e altri diversivi si inventano, come del resto in tutti i momenti di disgregazione sociale, quando monta la disaffezione verso le istituzioni. I partiti politici sono consapevoli di ciò, onde si penserebbe dovrebbero spingere per portare a compiutezza lo Stato repubblicano, mettendolo in condizione di recuperare con sue buone prestazioni l’affezione almeno di quelle parti della sua collettività che ancora si impegna; invece ciò non accade, anzi accade di peggio: molte voci restando seduti. Perfino il Partito comunista, che fra tutti meglio aveva inteso il valore del completamento dello Stato repubblicano come condizione necessaria e determinante della democrazia, come continuo tra collettività statale e pubblici poteri, cede oggi alle lusinghe dei diversivi quando servono a risultati politici a breve termine.

In questo quadro si pone la questione delle riforme costituzionali, che, con maggior coerenza rispetto alla consapevolezza di quanto accadeva, è stata aperta dal Partito socialista; ma meglio si direbbe lanciata, come una mongolfiera, senza esprit de suite, cioè non guidata né gestita.

(…). Di tutte queste riforme, ai fini della fondazione dello Stato repubblicano, certamente la rifondazione della funzionalità del Parlamento è indispensabile, ed è alquanto complessa; anche qui senza entrare in dettagli, essa si articola sulla differenziazione della rappresentatività delle due camere del Parlamento, sulla diversa distribuzione delle funzioni nel procedimento legislativo, sulla diversa delineazione delle commissioni permanenti e speciali secondo criteri organici con eliminazione di commissioni inutili (e controperanti), sulla disciplina delle funzioni d’indirizzo (che non c’è), sull’attrezzatura di servizi per la funzione di controllo, sulla razionalizzazione dei regolamenti di procedura. Finora solo l’ultimo di questi punti è stato preso in considerazione, essendo il più appariscente all’esterno, e ciò non depone bene. Ma ciò a cui la legge non può arrivare è la riforma dei partiti politici e dei sindacati, ond’è che «se mi mostra la mia carta il vero», è ben «lontano a discoprirsi il porto».

Massimo Severo Giannini, La lentissima fondazione dello Stato repubblicano, in «Regione e governo locale», I, 1981, n. 6, pp. 17-40, ora in Scritti, VII, 1977-1983, Milano, Giuffrè, 2005, pp. 632-658, la cit. alle pp. 657-658.