Il paradosso delle elezioni del 1975. Un voto sulle Regioni per conquistare il governo

Le elezioni amministrative del 15-16 giugno 1975 diedero un risultato finale in larga parte inatteso. Per quanto riguardava le Regioni, giunte alla seconda legislatura, votarono (nelle sole Regioni a statuto ordinario) 31.572.198 elettori (sui 34.063.567 aventi diritto), il 92,69%. La Dc ebbe il 35,27% e 277 seggi; il Pci il 33.46% e 247 seggi; il Psi l’11.97% e 247 seggi; il Msi il 6.43% e 40 seggi; il Psdi il 5,61% e 36 seggi; il Pri il 3,17% e 19 seggi; il Pli il 2,47% e 11 seggi; Democrazia proletaria (una lista extraparlamentare) 0,89% e 4 seggi; il Partito di unità proletaria per il comunismo lo 0,48% e 4 seggi. Il Pci vinse in Piemonte (33,9%), in Liguria (38,45%), in Emilia Romagna (48,3%), in Toscana (46,5%), in Umbria (46,1%), nelle Marche (36,9%), nel Lazio (33,5%). 7 regioni su 15 contro le 8 a maggioranza Dc. Quelle elezioni – come scrivono i tre autori della Storia della Democrazia cristiana de Il Mulino – “costituiscono (…) il punto più basso della crisi della Dc, che perse parecchi voti, attestandosi complessivamente sul 35%, nel quadro di un elettorato che visibilmente si spostava a sinistra, anche per l’ingresso di nuove fasce giovanili a causa dell’abbassamento della maggiore età a 18 anni”[1]. Il Pci riuscì a piazzarsi a soli due punti di distanza dalla avversaria di sempre, la Democrazia cristiana; i minori, alleati della Dc, persero voti; in parecchie regioni si insediarono giunte di sinistra a guida comunista. Il voto di province e comuni diede più o meno i medesimi risultati.

Di fatto i due grandi partiti erano entrati in quel giugno 1975 in una sorta di testa a testa, riassorbendo i gruppi minori e prosciugando quelli intermedi. Il Pci era indubitabilmente in forte crescita, la Dc accusava un calo vistoso: nient’altro che questo si poteva ricavare dal responso delle urne.

Poco prima del voto Giulio Andreotti, all’epoca ministro della Difesa nel governo Moro IV (composto di democristiani e repubblicani), scrisse nel suo diario questa non banale nota, che coglieva un punto molto interessante: la gara in atto era nazionale, non regionale né tanto meno locale. Gli elettori cioè avrebbero votato (e così di fatto avvenne) non tanto per giudicare i partiti (premiandoli o punendoli) in merito alla legislatura regionale o locale appena conclusa ma piuttosto guardando alla competizione per la conquista futura del governo nazionale.

 

Nei discorsi elettorali fino ad oggi ascoltati si è parlato pochissimo delle Regioni, che pure rappresentano la parte prevalente della competizione del 15 giugno. Tanto i consuntivi della prima esperienza delle nuove strutture, quanto i programmi per la seconda sembrano estranei alle scelte che i cittadini sono chiamati a compiere. Trovandomi ancora una volta e senza volerlo un po’ controcorrente, ho voluto per partecipare alla campagna elettorale promuovere uno studio sui rapporti Regioni-Enti locali, che è uno dei punti cruciali della mancata riforma dello Stato. La Regione è un anello di decentramento legislativo e amministrativo che non doveva, e non deve, chiudere in sé l’operazione, ma presupponeva, e presuppone, un forte uso della delega di attribuzioni dalle Regioni alle Province e ai Comuni. Lo Stato si deve in tale modo avvicinare al cittadino, le procedure devono essere sostanzialmente semplificate. Questo studio, che non ha pretese di completezza ma vuole solo rispondere a una sicura lacuna informativa, cerca di fare il punto su come stiamo in proposito, su quanto si è camminato e dove si è indietro, cercando di individuare il o i perché e costituire lo spunto per dibattere e popolarizzare questi problemi.

G. Andreotti, I diari degli anni di piombo, cit., pp. 369-370 (alla data del 24 maggio 1975).

[1] G. Formigoni, P. Pombeni, G. Vecchio, Storia della Democrazia cristiana, cit., p. 338.