L’insostenibile leggerezza ovvero la “nuova” riorganizzazione del Ministero per i beni e le attività culturali (Mibac)

Il 19 giugno 2019 il Consiglio dei ministri ha approvato il nuovo regolamento di organizzazione del Ministero per i beni e le attività culturali (Mibac) (qui il testo per il Consiglio). È il risultato di quasi un anno di lavoro, un tempo concesso lo scorso luglio a tutti i dicasteri per potersi riorganizzare utilizzando uno strumento più rapido, un d.P.C.M. – e non un d.P.R. – e senza dover chiedere parere al Consiglio di Stato (il nuovo Governo, in sostanza, ha usato lo stesso strumento dei governi precedenti, che tuttavia avevano sempre previsto termini più rapidi – pochi mesi – per poter giustificare la deroga al procedimento ordinario).

Il testo – che stranamente non è stato esaminato dal Consiglio superiore “Beni culturali e paesaggistici”, come è invece sempre avvenuto per i regolamenti di organizzazione del Ministero – scaturisce dalle proposte di una task-force interna. Il nuovo regolamento sostituisce per intero il precedente (d.P.C.M. n. 171 del 2014), anche se ne conserva gran parte dei contenuti: una scelta poco comprensibile sotto il profilo tecnico, soprattutto se si considera che il testo non riordina tutte le fonti che disciplinano l’organizzazione del Ministero, né abroga espressamente, pur indicandolo in premessa, il d.m. 23 gennaio 2016, che dunque ancora oggi regola la Direzione generale Archeologia, belle arti e paesaggio e le soprintendenze uniche.

Le poche ma gravi novità di questa ennesima riorganizzazione, che avrebbero potuto essere anche inserite nel d.P.C.M. n. 171 del 2014 senza riprodurre ex novo un intero testo in larga parte identico al precedente, riguardano quattro aspetti, cui corrispondono altrettanti effetti nefasti sulla struttura del Ministero: l’ipertrofia del centro; la mortificazione dell’amministrazione periferica; l’indebolimento del sistema museale; il caos in materia di esportazioni.

 

Un centro ipertrofico

Aumentano le posizioni dirigenziali attribuite alle strutture centrali. I posti di livello non generale al centro salgono di 5 unità e arrivano a 40 (inclusi i 5 dirigenti ispettori), ossia circa un quarto di tutti quelli disponibili (163 e non più 167, perché 2 si sono persi con il distacco del turismo e 2 sono soppressi per poter conservare 25 uffici di livello generale). È creata una nuova direzione generale per i contratti e le concessioni, ripescando una proposta che fu già discussa nella Commissione Bray del 2013 e poi scartata perché si valutò eccessivo avere, in un dicastero come il Mibac, 3 DG centrali di servizio (ve ne sono già 2 dedicate rispettivamente a Organizzazione e a Bilancio; prima ve ne era addirittura una sola, il che era in effetti poco funzionale). La nuova DG – la cui denominazione evoca le utopie burocratiche dei romanzi di Saramago – accentrerà tutte le procedure e sarà stazione appaltante per tutti gli uffici centrali del Mibac e, oltre una certa soglia, anche per quelli periferici: a meno che il valore di tale soglia non sia fissato in decine di milioni di euro, perciò, anche le gare per Uffizi, Pompei e Colosseo, per esempio, dovranno essere gestite da Roma. Ma con quali competenze? Non sarebbe stato più opportuno rafforzare le professionalità in materia di contrattualistica nelle strutture o nel già esistente ufficio contratti della DG Bilancio? Cosa potranno mai fare 3 dirigenti senza il necessario personale?

Crescono poi i servizi dirigenziali di altre DG (Musei, Cinema, Archivi, Contemporaneo, ma non Biblioteche e istituti culturali, dove forse servirebbe un servizio in più, interamente dedicato alla complessa materia del diritto d’autore); ma scendono da 6 a 5 quelli della super DG Archeologia, belle arti e paesaggio, che perde anche l’Istituto centrale per l’archeologia (soppresso). Eppure questa DG vede crescere significativamente i propri compiti, con le lancette che tornano indietro di oltre quindici anni: con la soppressione delle Commissioni regionali per il patrimonio culturale, tutti i provvedimenti oggi di loro competenza, come quelli di vincolo e di verifica, ovunque in Italia (fatte salve le autonomie speciali come la Sicilia o il Trentino Alto Adige), saranno adottati a Roma. Eppure è alle Commissioni, ossia quegli organi composti da tutti i dirigenti Mibac operanti in una Regione, che la legge (articolo 12, d.l. n. 83 del 2014, conv. legge n. 106 del 2014) affida il compito di decidere sui reclami contro le decisioni delle soprintendenze: ma il regolamento inspiegabilmente tace su questo e tale compito non è attribuito ad alcun ufficio, così come dimentica (?) di riprodurre la disposizione – dello stesso articolo 12 del d.l. n. 83 del 2014 – che demandava alle soprintendenze maggiore trasparenza sullo stato di andamento dei loro procedimenti.

 

La mortificazione dell’amministrazione periferica

L’ingordigia del centro, ben rappresentata anche dal potenziamento dei compiti del Segretariato generale che acquisisce – con una scelta condivisibile già tentata nel 2014, ma poi abortita per dubbi di legittimità rispetto ai compiti che il d.lg. n. 300 del 1999 disegna per i segretari generali nei ministeri – anche proprie articolazioni periferiche (i segretariati distrettuali), produce un forte indebolimento sia delle strutture periferiche del Mibac, sia dei loro rapporti con le amministrazioni locali.

In primo luogo, la soppressione delle Commissioni regionali – in palese violazione del già citato articolo 12 del d.l. n. 83 del 2014, perché il nuovo regolamento nulla dice sulle funzioni attribuite a questi organi dalla norma primaria – rende le strutture periferiche meno forti e le stringe in una morsa tra i nuovi segretari distrettuali – verosimilmente interregionali – e i nuovi super-poteri della DG Archeologia, belle arti e paesaggio a Roma. Inoltre, vi sarà la DG Contratti e Concessioni che limiterà ulteriormente le funzioni e la capacità d’azione degli uffici periferici.

In secondo luogo, l’incremento di uffici dirigenziali non generali al centro diminuirà quelli nei territori. Senza contare la soppressione di 3 istituti e luoghi della cultura autonomi, sono ridotte da 99 a 92 le posizioni dirigenziali da collocare nelle strutture periferiche (sempre non includendo gli istituti dotati di autonomia). Se si considera poi che il nuovo regolamento prevede anche l’istituzione di uffici esportazione di livello dirigenziale e la possibilità di avere dirigenti amministrativi nei musei o nei parchi archeologici autonomi di livello generale (come il Colosseo, Caserta o Brera, per esempio), allora davvero non è chiaro come i conti possano tornare senza andare a diminuire anche il numero delle soprintendenze, degli archivi o delle biblioteche (che da soli totalizzano oggi 69 posizioni dirigenziali non generali sul territorio). Sempre che non si decida di avere, per tutta Italia, solo 3 segretari distrettuali o solo 3 direzioni territoriali di reti museali, con evidenti malfunzionamenti nella gestione dei siti minori.

 

L’indebolimento del sistema museale

Il nuovo regolamento sopprime 3 istituti e luoghi della cultura autonomi – Parco archeologico dell’Appia antica, Galleria dell’Accademica (Firenze) e Museo nazionale etrusco di Villa Giulia – senza che siano esplicitati i criteri di questa decisione.

Per l’Appia antica, di cui si sarebbe forse potuta comprendere la trasformazione in una soprintendenza dotata di autonomia speciale senza privarla dello status dirigenziale, anche considerato il progetto di valorizzazione della intera via; in aggiunta, il nuovo direttore è stato appena nominato. L’Accademia ha un bilancio tra i più corposi (oltre ad essere tra i musei più visitati in Italia, grazie al David) e la perdita dell’autonomia avrà riflessi negativi sull’efficiente uso di queste risorse e sulla trasparenza nella loro gestione (a chi saranno destinate? Al polo– ora nuova direzione territoriale della rete – museale della Toscana? Ma con quali tempi di assegnazione, visto che la soppressione della posizione dirigenziale porta con sé la scomparsa anche dell’autonomia contabile?). Villa Giulia è il museo etrusco di rilevanza globale, con una collezione unica al mondo, e, sia per Salvatore Settis, sia per chi scrive, avrebbe meritato di essere incluso sin tra i primi venti istituti autonomi identificati nel 2014. A quel tempo, l’allora Ministro, per scegliere quali musei e siti dovessero acquisire il nuovo status di istituti autonomi, chiese uno studio approfondito, raccogliendo dati, numeri, statistiche e si rivolse a esperti interni ed esterni al Ministero (tra cui lo stesso Settis) per ricostruire le ragioni storico-artistiche, archeologiche, museali e culturali che potessero giustificare le scelte da compiere. Questa volta nulla di tutto ciò si è verificato e i parametri adottati per sopprimere l’autonomia amministrativa e contabile di 3 istituti appaiono davvero misteriosi. Senza contare che il regolamento nulla prevede, nelle norme transitorie, sul destino degli attuali direttori degli istituti, alcuni ancora contrattualmente in servizio per diversi anni.

Ma anche altri interventi completano quest’opera di indebolimento. Innanzitutto, ritorna l’obbligo per i direttori dei musei di informare preventivamente la DG Archeologia, belle arti e paesaggio – neanche il soprintendente territorialmente competente, quindi, ma direttamente Roma – circa i prestiti delle opere: ci si dimentica, ahimè, che stiamo parlando dello stesso Ministero, che i musei non sono un corpo estraneo ma uffici dello Stato, con personale pubblico che per decenni ha lavorato presso le soprintendenze. Inoltre, la trasformazione dei poli museali in direzioni territoriali di reti museali con competenze anche interregionali difficilmente potrà funzionare, perché i compiti dei dirigenti sono rimasti gli stessi dei poli: come potrà un dirigente di rete, privo di teletrasporto, autorizzare i prestiti dei musei di 3 regioni?

 

Il caos in materia di esportazioni

L’ultimo aspetto riguarda la creazione di un numero indefinito di uffici esportazione, nuovi posti dirigenziali alle dipendenze della super DG Archeologia, belle arti e paesaggio. Per la prima volta dopo un secolo, gli uffici esportazione “escono” dalle soprintendenze – che peraltro perdono anche due aree funzionali, quella dedicata al patrimonio demoetnoantropologico e quella per l’educazione e la ricerca. Non è un ritorno ai prefetti, come nel 1800, ma quasi. Perché creare nuovi uffici dirigenziali, quando già era attivo presso la DG a Roma un servizio dirigenziale per il coordinamento di tutte le soprintendenze in materia di esportazione? E con quale personale opereranno queste nuove strutture? E chi avvierà il procedimento di vincolo in caso di diniego dell’esportazione? Sempre il soprintendente, che sarà di volta in volta messo a conoscenza di quanto deciso da uno di questi uffici?

In assenza di qualsiasi studio di fattibilità e di analisi dei dati sui procedimenti, si va a separare una delle funzioni più antiche di tutela del patrimonio culturale, duplicando le linee di comando dalla periferia verso il centro e creando evidenti rallentamenti procedurali (è il caso, per esempio, della commissione di funzionari prevista dal regolamento per decidere sulle esportazioni).

Anche qui, la soluzione più razionale sarebbe stata semplice: incrementare le dotazioni di personale.

 

Un requiem per le funzioni

In conclusione, il nuovo regolamento segna una pagina cupa nella lunga storia di riorganizzazioni del Ministero.

Non convince il metodo, perché l’iter di un anno ha promesso una fase di ascolto – attuata tramite una serie di audizioni, come fece la Commissione Bray nel 2013 –  senza però alcuna condivisione del testo, rinunciando anche al parere degli organi consultivi preposti, e perché le scelte compiute non sono state accompagnate da alcun documento e la relazione illustrativa si limita a parafrasare le disposizioni (diversamente da quanto avvenuto con i precedenti d.P.C.M. n. 171 del 2014 e d.m. 23 gennaio 2016).

Lasciano poi molto perplessi i contenuti, perché i quattro effetti sopra descritti – ipertrofia del centro, mortificazione della periferia, indebolimento dei musei e caos delle esportazioni – produrranno conseguenze negative sul Ministero e renderanno ancor più difficile rafforzarne i compiti di tutela e valorizzazione. Per certi versi, il forte accentramento di compiti a Roma rischia di alimentare ancor di più le istanze autonomiste delle Regioni del Nord, che chiedono addirittura di avere proprie soprintendenze.

Soprattutto, quel che sorprende è la totale non curanza della storia di un’amministrazione che, prima della creazione del Ministero per i beni culturali e ambientali nel 1974-1975, risale al 1872. La riforma del 2014, con tutti suoi difetti, ebbe almeno il pregio di fondare le proprie scelte su decenni di studi, dalla Commissione Bray sino alla Commissione Franceschini degli anni Sessanta del XX secolo: basti pensare che i 32 istituti autonomi identificati nel biennio 2014-2016 sono rintracciabili già nel progetto di legge Ragghianti del 1965.

Questa volta, il Ministero e il Governo sembrano aver proceduto alla cieca, senza una adeguata istruttoria (come si è potuta ignorare la norma di legge sulle commissioni regionali? Perché il d.m. 23 gennaio 2016 non viene espressamente abrogato?) e in assenza di un criterio guida che fosse ispirato alle funzioni da svolgere.

Il punto è che la vera e principale urgenza del Mibac non è quella di giocare al “lego” istituzionale – per citare la formula usata in passato da Girolamo Sciullo – ma di investire risorse sul personale. La dotazione di circa 19.000 unità decisa nel 2012-2013 dal governo Monti può essere anche sufficiente, ma a condizione che corrisponda all’organico di fatto – oggi inferiore alle 16.000 unità. La priorità, dunque, è colmare queste lacune nell’organico, con meccanismi di reclutamento regolari nel tempo, senza mega-concorsi da migliaia di posti, ma con più procedure scandite e certe. Perché anche nei concorsi, come in tutta l’amministrazione pubblica, vale il principio del “learning by doing”. È difficile dire se i novelli Sisifo che hanno deciso di rimettere mano alla organizzazione del Mibac fossero “felici”, come suggeriva Albert Camus: quel che è certo è che, almeno leggendo il testo, si sono mostrati poco consapevoli.

 

Lorenzo Casini

Professore ordinario di diritto amministrativo nella
Scuola IMT Alti studi di Lucca e presidente dell’IRPA