Giustizia ed economia: l’editoriale di Luisa Torchia

La giustizia può essere un freno allo sviluppo economico? Certo. Se la giustizia civile ha tempi lunghi – in Italia sono biblici – non ci sarà certezza nell’adempimento dei contratti, i creditori non potranno esigere quanto loro dovuto, il danno della violazione delle regole rimarrà in capo a chi subisce la violazione e non, come dovrebbe, a chi l’ha commessa. Se la giustizia penale interviene frequentemente con provvedimenti di confisca e sequestro ben prima dell’inizio del processo – che anche in questo caso durerà anni – bloccando l’attività economica in via preventiva, e non come conseguenza di una sentenza di condanna, l’incertezza e il rischio operano come costi aggiuntivi sull’attività d’impresa.

La giustizia civile e quella penale non sono, però, al centro del dibattito recente, che si è concentrato sulla giustizia amministrativa, accusata di lavorare contro il PIL. Se solo non ci fossero i Tar e il Consiglio di Sato, il PIL crescerebbe (o forse almeno smetterebbe di diminuire, visti i dati degli ultimi anni), le gare d’appalto non verrebbero sospese, le opere pubbliche si realizzerebbero celermente, i piani regolatori verrebbero approvati nei tempi, i concorsi non verrebbero bloccati, e così via.

Davvero?

No, naturalmente no. Attribuire alla giustizia amministrativa la responsabilità dell’incertezza, dello stallo e dell’inefficienza che caratterizzano il sistema italiano e della sua incapacità di uscire dalla crisi è un bell’esempio di inversione del rapporto tra causa ed effetto.

Due sono i motivi principali per cui tante decisioni dell’amministrazione pubblica italiana vengono portate davanti al giudice amministrativo. Primo: le norme sono troppe, contraddittorie, spesso incomprensibili. La legge non è uno strumento di ordine, ma uno strumento di comunicazione, viene utilizzata per fare annunci (all’elettorato o a singoli gruppi di interesse) e non per porre regole. Anche quando le regole vengono poste, ci sono continui ripensamenti e cambiamenti di rotta, a volta addirittura con effetti retroattivi. Un solo esempio: il Codice dei contratti pubblici – il testo fondamentale per la disciplina delle gare – ha subito 44 modifiche in 7 anni. Nonostante tutte queste modifiche ancora non è chiaro quali dichiarazioni un’impresa debba fare per poter legittimamente partecipare ad una gara. La copiosa giurisprudenza sul punto è responsabilità del giudice amministrativo, o del legislatore che non pone una norma chiara e delle amministrazioni che applicano le norme in modo sempre diverso da caso a caso?

Secondo: l’amministrazione italiana è inefficiente, rifugge dalla decisione e svolge le sue attività in tempi incompatibili con il mondo moderno. Anche qui un solo esempio: la disciplina dei titoli abilitativi in edilizia è stata, in nome della semplificazione, modificata più volte negli ultimi anni, ogni volta accrescendo le incertezze applicative. Persino gli esperti della materia hanno difficoltà a decidere quando occorre una Dia, o una Scia, o una superDia o il permesso di costruire o, ancora, quando si può procedere senza alcuna autorizzazione.. Non si deve dimenticare, però, che tutta questa turbolenza regolatoria nasce da un semplice fatto: le amministrazioni pubbliche non vogliono o non possono rilasciare in tempi certi un permesso di costruire, Questa evidente inefficienza non viene affrontata direttamente, ma aggirata, attribuendo significato all’inerzia amministrativa (i silenzi dell’amministrazione parlano), inventando casi in cui il controllo amministrativo non è necessario, e poi tornando indietro perché occorre comunque tutelare il terzo. E in ogni caso l’amministrazione può intervenire dopo, quando i lavori son già iniziati o addirittura conclusi e stabilire che non dovevano essere fatti. Anche qui: è il giudice ad ostacolare l’edilizia, o un legislatore incapace di scegliere e un’amministrazione inerte prima e prevaricatrice poi?

Il processo amministrativo diventa, in questa situazione, il terminale sul quale si scaricano le tensioni del sistema. Non si può pretendere di eliminare queste tensioni cominciando dalla fine, né si può fare finta che la giustizia amministrativa sia una istituzione peculiarmente italiana. Tutti i maggiori paesi europei – Francia, Germania, Spagna, Belgio – hanno un giudice amministrativo accanto al giudice ordinario. Anche nel Regno unito, patria della c.d. common law, la giustizia amministrativa si sta da tempo sviluppando, perché si è riconosciuto che il rapporto fra amministrazione e privati è diverso dal rapporto fra i privati e richiede una giurisdizione specializzata, a garanzia innanzitutto del diritto di difesa contro le decisioni del potere pubblico.

E’ il rapporto tra queste decisioni e l’economia che occorrerebbe studiare e riformare, senza vagheggiare impossibili immunità che, esse sì, sarebbero di ostacolo allo sviluppo economico. Un potere pubblico non sottoposto al sindacato giurisdizionale non è più efficiente, è solo più arbitrario. La giustizia amministrativa italiana può sicuramente essere migliorata, ma se la legislazione e l’amministrazione continueranno a produrre incertezza e ad essere impermeabili alle esigenze di modernizzazione, di chiarezza, di tempestività, non sarà qualche sentenza in meno a risollevare il PIL.

Lo scritto qui proposto è stato pubblicato come editoriale nel Giornale di diritto amministrativo, n. 4, 2014.